Il tema della vita e della sua forza irriducibile, il tema della finalità e del senso della ricerca scientifica sono al centro anche della riflessione del maestro di Štrum, il professor Dmitrij Petrovič Čepyžin.
Il professor Čepyzin è il maestro di Štrum. La sua figura è presente nei due romanzi di Vasilij Semënovič Grossman, Stalingrado e Vita e Destino.
L’allievo non ha mai dimenticato il loro primo incontro a lezione. La voce del maestro è pacata, paziente, indulgente, ma può improvvisamente farsi appassionata nel tono, addirittura violenta, da propagandista politico più che da professore. Le formule che scrive alla lavagna non sono solo espressioni della nuova meccanica delle super energie e delle velocità supersoniche, sembrano addirittura appelli, slogan. Il crepitio del gesso sembra quello di una mitragliatrice, quando la mano del professore, delicatissima con gli strumenti ultrasensibili, ma forte come quella di chi sa usare pialla e ascia, indica un punto, come a piantare un chiodo sulla lavagna che porta il disegno di un integrale, incantevole nella sua forma di cigno. Leggi di più
Le formule di Čepyžin sono frasi umanissime che raccontano il dubbio, la fede, l’amore, ricche come sono di commenti espressi da punti interrogativi o esclamativi o puntini di sospensione … radicali, differenziali, integrali sono affascinanti a tal punto che cancellarli dalla lavagna fa male al cuore … «Quella lavagna voleva essere custodita come un prezioso manoscritto» (PGC, I, 33).
Il professor Čepyžin d’altronde è un uomo singolare. Già avanti negli anni, fisico di fama internazionale, costruisce la sua dacia da sé con tronchi d’albero che abbatte e taglia e pialla personalmente coi suoi due figli. Costruisce la stufa, scava il pozzo vicino alla casa e traccia nella foresta il sentiero per arrivarci. Ama raccontare che un vecchio del villaggio, bravo carpentiere, sempre insoddisfatto del lavoro altrui, avendolo visto lavorare e avendone apprezzata l’abilità, lo ha invitato a costruire per lui una rimessa, offrendogli anche una paga interessante.
E tuttavia Čepyžin non è il tipo da trascorrere tutta l’estate nella dacia. Con sua moglie, Nadežda Fëdorovna, se ne va a piedi, sacco a pelo e zaino, a visitare i più remoti angoli del suo paese. La taiga in estremo Oriente, le alture del Kirghizistan, il lago Teleckoe sulle montagne dell’Altai nella Siberia meridionale, il lago Bajkal. In barca lui e sua moglie hanno disceso diversi fiumi: la Moscova, l’Oka, il Volga fino ad Astrachan’. Hanno anche esplorato le foreste di Briansk. Mentre viaggiano, Dmitrij Petrovič tiene un diario, che legge solo a sua moglie, perché lì esprime la sua emozione davanti ai tramonti e alle aurore, alle foreste, ai temporali estivi, ai chiari di luna, al cielo stellato.
Questa sua vita intensa emerge con maggior evidenza quando in autunno, rientrato all’università, si trova tra tutti i colleghi, bianchi e rosei o diafani, d’aspetto fragile e malaticcio, agnelli invecchiati. Lui ha l’aspetto forte e irsuto di chi lavora all’aperto e magari ci dorme anche. Il suo colore abbronzato non è solo quello dato dal sole, ma quello del freddo mattutino, del vento notturno, del gelo. Un orso bruno dalla testa potente. In Vita e destino (VD, III, 25) compare anche il suo viso: semplice e rozzo, spigoloso, col naso adunco, un viso da contadino, ma nello stesso tempo arguto e intellettuale. E le sue mani sono operaie e aristocraticissime nello stesso tempo.
È uomo dai più vari e vasti interessi: studioso di fisica, scrive poesie, ama la pittura, è circondato da molta ammirazione, specie femminile. Eppure ha un’unica passione: rendere la vita migliore per tutti, grazie al sapere, grazie alla scienza.
Il suo amore per i boschi e la campagna del suo paese, il suo interesse per i pittori realisti del XIX secolo, Levitan e Savrasov, di cui colleziona le tele, la sua ammirazione per Tolstoj e Puškin, la sua amicizia coi vecchi contadini che vengono a trovarlo a Mosca, lo sforzo enorme per organizzare le università operaie della capitale, la sua curiosità per i canti popolari e per le nuove industrie, le cure persino un po’ ridicole che appresta ad un riccio, ad una cincia e a dei passerotti che hanno scelto la sua casa per dimora, tutto ciò ha un fondamento unico, e su questo s’innalza l’edificio della sua scienza.
Per il professor Čepyžin tutto l’universo del pensiero astratto, arrivato ormai ad altezze in cui non si distinguono più il mare, i continenti, il pianeta stesso, tutto questo universo è solidamente piantato sulla sua terra natale, e da lì trae i succhi vitali che lo fanno vivere.
Perché per Dmitrij Petrovič la sua vita di scienziato è guidata fin dalla giovinezza da un sentimento semplice e chiaro: «Voglio che i lavoratori siano liberi, felici e ricchi, che la società sia organizzata su basi di libertà e di giustizia» (PGC, I, 33).
Cioè, le sue azioni, le sue decisioni, i suoi progetti di scienziato hanno senso, solo se sono finalizzati alla felicità di tutti. Egli ricerca come tutti i sapienti la verità, ma non per se stessa; per lui il fine ultimo della scienza è quello di giovare all’umanità. Naturalmente nelle parole di Čepyžin, e anche di Štrum, c’è sovrapposizione tra le idee di “lavoratori”, “società”, “umanità”. Ma occorre notare che questi due personaggi si esprimono così, perché la dilogia di Grossman è un romanzo storico. Čepyžin e Štrum sono scienziati sovietici attivi negli anni Venti, Trenta del XX secolo, nell’Unione Sovietica appena nata dalla rivoluzione.
Ma è evidente che il professor Čepyžin reputa che o il fine della scienza è quello di giovare all’umanità o non si dà scienza. Risolve così, nella dichiarazione della finalità etica della scienza, il tema che interessa il suo allievo Štrum, quello del rapporto tra teoria e prassi.
Ci sono due importanti dialoghi tra Čepyžin e Štrum nella dilogia. Il primo è in Per una giusta causa (I, 42), il secondo è in Vita e destino (III, 25). In entrambi è presente il tema della ricerca scientifica, della sua finalità ultima, e delle sue applicazioni tecnologiche. Nel primo dialogo, con forza, è presente anche il tema dell’energia morale del popolo, che per quanto mutilata, conculcata, lacerata, non può essere distrutta.
La riflessione dei due scienziati prende l’avvio dalla domanda inquietante sulla civiltà tedesca. Come è potuto accadere che una cultura così raffinata, sia stata ridotta al silenzio da una banda di primitivi scellerati? Non è che il nazismo sia sorto dal nulla: quanto c’è di nazionalismo nella cultura tedesca prima di Hitler? Ricordando una conversazione, in cui Krymov citava Marx sul ruolo delle forze reazionarie nella storia tedesca, Štrum esprime una valutazione storicista: «Il fascismo ha un legame di parentela con il passato reazionario tedesco, ma ne è una forma particolare, la più abominevole» (PGC, I, 42).
Il professor Čepyžin non lo segue su questo terreno, per lui è la natura degli esseri umani ad essere ambigua, sospesa com’è tra primitivismo e cultura.
Nell’uomo c’è una sacra mistura, ci sono in lui cose sepolte, nascoste, primitive, grezze. Un uomo che vive in condizioni sociali normali di solito ignora lui stesso il sottosuolo e le caverne del suo animo. Ma avviene una catastrofe sociale ed ecco che il verminaio esce dalle caverne, cresce e di diffonde negli spazi chiari e puliti! (PGC, I, 42)
Il nazismo, dice Čepyžin, ha portato alla superficie tutto ciò che era sepolto, nascosto, mentre le forze buone della ragione, si sono rintanate nel profondo. Ma, benché siano divenute invisibili, esse continuano ad esistere, non sono annientate. I nazisti hanno mutilato l’animo di tanti, ma «l’uomo resterà l’uomo» (ibidem). Il sentimento popolare, dice Čepyžin, è che il lavoro libero, utile e creatore ha bisogno di uguaglianza, di onore, di libertà.
La morale del popolo è semplice: il mio diritto sacro posa sul diritto sacro di tutti i lavoratori che vivono sulla terra. Mentre il fascismo e Hitler hanno affermato il contrario con un’evidenza e una brutalità particolare: il mio diritto è nella schiavitù degli uomini e dei popoli, nella sottomissione del mondo intero. (…) Le forze buone, razionali, popolari, il sale della vita, si sono rintanate in profondità, sono diventate invisibili, ma continuano a vivere, a esistere… Il popolo resterà (ibidem)
Il fascismo, dice il professor Čepyžin, è potente ma non può vincere. L’energia morale di un popolo è simile all’energia del sole, che «si irradia nello spazio e attraversa deserti di oscurità e resuscita nelle foglie d’un salice, nella linfa vivente d’una betulla» (ibidem). Si nasconde nei cristalli, nel carbone e fa nascere la vita. I caporioni della violenza e della distruzione, i fascisti sentono il bisogno di giustificare le loro tremende azioni con lo scopo del bene per il loro popolo. Ma, osserva Čepyžin, come può esistere il bene di un popolo solo, al prezzo sanguinoso del male per tutti gli altri? Se la ricerca del bene si fonda su una base nazionalista, o peggio razzista, il prezzo sarà la distruzione di tutti quelli che non appartengono ad uno specifico gruppo, sia esso nazionale, razziale, sociale.
Questo mondo amaro, percorso dalla violenza più scellerata, non deve essere ignorato dagli scienziati. La scienza, dice Čepyžin, è sul punto di scoprire immense fonti di energia e queste, dice, devono appartenere al popolo, cioè a tutti. Se cadranno in mano fascista, cioè non nelle mani di tutti ma di qualcuno soltanto, le forze di distruzione create dalla scienza moderna, ridurranno il mondo in un cumulo di macerie.
Štrum non è d’accordo sul problema tedesco, di cui ribadisce il carattere storico: è l’imperialismo prussiano il terreno di coltura del nazismo. Polemicamente domanda poi dove sia la morale del popolo in Germania, dal momento che il popolo potendo esprimersi in libere elezioni, ha votato per Hitler. Štrum esprime un giudizio “da marxista”. La vittoria del nazismo in Germania è una vicenda storica, mentre per il suo maestro questa sembra una vicenda eterna, l’eterna lotta tra Bene e Male. «La vostra sacra mistura nega nei fatti il progresso, il movimento in avanti», dice Štrum. Ma il progresso esiste: negli anni successivi alla rivoluzione, negli anni sovietici tutto è cambiato. Non si tratta del conflitto universale tra Bene e Male, ma di cambiare in positivo l’intera società umana. In Germania, quando il nazismo sarà vinto, bisognerà risanare il terreno di coltura che l’ha prodotto.
Non è senza una nota umoristica che questo dialogo prende vita. La figura di Čepyžin, come si sa, è stata introdotta da Grossman in un secondo tempo rispetto alla versione originale del primo romanzo. Nella prima versione lo scienziato protagonista era solo Štrum, che riassumeva in sé anche il carattere del suo maestro. Ma che un sapiente ebreo avesse una statura intellettuale maggiore di chiunque altro, era stato giudicato inammissibile dai censori nell’URSS degli anni Cinquanta. Ebbene in questo dialogo sulla Germania, il marxista è l’ebreo, laddove il russo si mostra sensibile a riflessioni “idealiste” e problematiche.