Autore: Nanda

  • Berlino il vuoto

    Vincenzo Latronico e Massimo Zamboni. Dialogo. 20 agosto 2024 su La Stampa.

    Berlino il vuoto

    È da poco stato ripubblicato per Einaudi Nessuna voce dentro, il memoir in cui Massimo Zamboni racconta il suo periodo in una casa occupata della Berlino scissa dal muro: una ricerca esistenziale iniziata seguendo Tondelli, «per vedere dove terminava quella autostrada del Brennero che cominciava dietro casa nostra», e finita incontrando Giovanni Lindo Ferretti, con cui avrebbe fondato i CCCP. Il racconto di Zamboni – che torna in libreria nell’anno in cui il gruppo ha celebrato un ritorno sulle scene anche con due grandi concerti berlinesi – è scanzonato e lirico e rabbioso, ricco di immagini della Berlino degli anni Ottanta e di tutti quelli che la vita aveva trascinato lì, camerieri, occupanti, punk rocker, scappati di casa; come ogni storia di gioventù, combina nella sua voce l’incanto di chi ha vissuto quell’epoca e il disincanto di chi la ricorda. Ma per molti versi la città che racconta è sorprendentemente simile a quella che ho trovato io quindici anni dopo, raccontandola in un altro libro, La chiave di Berlino (Einaudi). Le atmosfere e le promesse che ritrova Zamboni – in un’epoca diversa, letteralmente in un Paese diverso da quello che ho visitato io, che ai tempi erano due – gli parlano nella stessa voce che ho sentito io, lo seducono con lo stesso richiamo. È il richiamo dello spazio vuoto, tanto promettente quanto inspiegabile in una metropoli – i lotti abbandonati, i palazzi disabitati in affitto a pochi soldi, l’aeroporto chiuso e rimasto lì come parco. Ho cominciato chiedendogli di questo. 

    Massimo Zamboni: «Berlino era un buco nero di cui non sapevo nulla. Appena arrivato, uscendo dalla stazione di Yorkstrasse, ho sbagliato strada e sono finito in una zona bombardata che assomigliava a una foresta vergine equatoriale in mezzo alla città. L’immaginario che aveva sorretto la mia emancipazione giovanile era legato agli Stati Uniti, ma mi è bastato un viaggio là per capire che quel mondo era finito. Bisognava guardare da qualche altra parte, lì dove non guardava nessuno. Berlino il contrario dell’eccesso, della sovrabbondanza degli Stati Uniti, dove ogni città ripercorre un nome che tu hai già sentito cantato o letto. Quelle americane sono tutte storie di altri. A Berlino per la prima volta, brancolando in quel buio, ho trovato la mia». 

    Vincenzo Latronico: «Per me è stato lo stesso – e questa è in fondo la storia classica, novecentesca, del ragazzo che va nella grande città e ne torna, mesi o anni dopo, avendo capito chi è. Era Parigi nell’Ottocento, New York negli anni Sessanta – Berlino ne è stato forse l’ultimo esempio, della metropoli come metafora della gioventù. Ora le città sono qualcosa di diverso». 

    Zamboni: «Certo, perché il grande vuoto che Berlino ti offre reclama di essere riempito. Questa disponibilità di spazio ti chiedeva di inventare qualcosa, un’arte o un mestiere, l’applicazione di un’idea, ho visto fiorire discoteche, negozi di ogni tipo, in qualunque buco. E io in fondo sono emiliano: poter intraprendere qualunque cosa, con pochissime regole, semplicemente basandosi sulle tue idee e sul tuo senso pratico, mi sembrava meraviglioso. È questo che deve fare una città: dare spazio al genio del dilettantismo. Berlino me lo ha insegnato – altre città non avrebbero potuto – e in qualche modo è ancora così».

    Latronico: «Anche questo non è cambiato in trent’anni: quel fermento di – parola pessima, ma usiamola – creatività. Ma questo è un problema che anche io mi sono posto, perché questo linguaggio che usiamo – il vuoto che ti invita a creare qualcosa per riempirlo – è anche il linguaggio dell’imprenditorialità e quello che è successo a Berlino è anche che questi meccanismi di chi crea arte, di chi crea musica e di chi crea comunità sono poi stati adottati da chi crea in modo molto più violento e commerciale. Questo adesso è il linguaggio delle start up che si sono innestate su questo tipo di fermento berlinese quasi senza soluzione di continuità, cacciando gli artisti e i musicisti che cercavano un vuoto che non c’è più».

    Zamboni: «Guarda, non sarei così drastico. Io vivo in mezzo alle montagne e qui, quando c’è un incolto, ci sono delle piante pioniere che cominciano a fertilizzarlo pian piano. E sopra alle piante pioniere – non c’è niente da fare – si innestano prima o poi le piante prepotenti, la quercia, il castagno, e le piante pioniere sono costrette a spostarsi. È un po’ quello che è accaduto a Berlino, ma accade ovunque: c’è sempre qualcuno che fertilizza questo vuoto, e poi arrivano le grandi potenze che se ne impadroniscono. E io non chiedo di meglio che farmi da parte, perché non ho possibilità di competere con questa potenza soverchiante, questa metropoli prepotente fatta di palazzoni di cristallo – quelli che stanno schiacciando, ad esempio, l’Astra Club, storico locale dell’Est dove abbiamo suonato a febbraio. Se mi sento al centro di qualcosa devo scappare altrove, non ho modo di competere con la forza di chi vuole stare lì». 

    Latronico: «Infatti, sono scappato anche io. Ma mi chiedo e ti chiedo – forse con un po’ di cattiveria – se non è stato un po’ ingrato, andarsene. C’è una famosa domanda che fece Zavoli a Mario Capanna. Gli disse, “Voi nel ’68 gridavate fantasia al potere. Poi la fantasia non è andata al potere, ma lei sì, in Parlamento. Mi dica, si sente in debito nei confronti della fantasia?”. Ecco, in questo sia per te che per me Berlino ci ha dato tanto – arriviamo smarriti, torniamo con un’arte. L’occasione sprecata dalla città, noi l’abbiamo sfruttata. Mi chiedo: c’è da sentirsi in debito?».

    Zamboni: «Non credo. Perché Berlino tutto quello che mi ha dato me l’ha tolto anni dopo, con una violenza assoluta e quindi non sono in debito. Ma non sono neppure in credito, sono assolutamente allineato. Berlino ha sempre avuto questa ferocia nei miei confronti, mi ha regalato tantissimo ma quello che mi ha regalato me l’ha tolto facendomi male. E, con questi concerti, adesso mi ha ridato tantissimo. Ora siamo pari».

    Latronico: «Questa ferocia si sta manifestando sempre di più. Per molti versi Berlino sta diventando, come scrivi, “una metropoli di vetro che si innalza senza ostacoli, densa di promesse che andranno disattese”. Lo spirito del luogo, il vuoto, rimane – ma è sempre meno. Questa mi sembra un’occasione persa. Con tutto quel vuoto la città aveva l’opportunità per inventare qualcosa di diverso, una città che non fosse né Berlino Est né Berlino Ovest, che non fosse né Pyongyang né Chicago. E alla fine non è successo». 

    Zamboni: «Sì, abbiamo abdicato la nostra possibile autorità morale, etica di europei cedendo le città ai grandi capitali. Da questo punto di vista Berlino rappresenta ancora una resistenza, che è la resistenza della memoria. La Germania ha la grande capacità di vergognarsi della propria storia, e di vergognarsene così tanto da metterla in mostra per creare dei distinguo. I memoriali dell’Olocausto, le pietre d’inciampo, i musei, ricordano. In questo, Berlino è ancora una lezione unica, per noi. L’Italia non ha saputo farlo, ha buttato tutto sotto la sabbia, e questo è uno dei motivi principali del nostro grande disastro. La Germania si è salvata perché ha affrontato il ricordo».

  • Paesaggi. Tonalità. Episodio1.

    Paesaggi. Tonalità. Episodio1.

    Paesaggi è un episodio della webserie TONALITÀ, la cifra di Vasilij Grossman prodotta da ItalianaContemporanea. Ciascun episodio ha un suo tono particolare. L’idea è di far sentire a chi legge l’ampiezza dei registri espressivi che il testo conserva anche in traduzione.

    EPISODIO 1

    Paesaggi. Il Volga visto dall’alto di una falesia è un paesaggio maestoso. Muta i suoi colori al passare delle ore del giorno, in un ritmo oltre l’umano.. La guerra squarcia il suo silenzio alieno alle vicende umane. Eppure è il ritmo del fiume a scandire quello che per molti sarà l’ultimo giorno, È il ritmo dell’acqua e del cielo che restituisce la giusta solennità all’ora della nostra morte, sottraendola alla trivialità della guerra.

    Paesaggi. È il giorno fatale del 5 settembre 1942, quando i tedeschi attaccano in forze Stalingrado. Sta per iniziare una battaglia aspra e sanguinosa, tanto più orrenda in quanto si svolge in un paesaggio scintillante e maestoso, su cui però si allunga l’ombra scura che la falesia proietta, così diversa dal sole accecante della steppa. E si compie il destino di morte per Tolja, uno dei molti uccisi o mortalmente feriti quel giorno.

    Chi è Tolja? È figlio di Ljudmila e del suo primo marito, Abarčuk. Ma in questo episodio è il suo carattere che si squaderna sotto i nostri occhi di lettori.

    Tolja

    Tolja è giovanissimo. Ha diciotto/dicannove anni. È timido, cresciuto da una madre che lo ha sempre protetto, lo ha viziato. Merende e caramelle. La cesura netta della guerra lo ha proiettato nel mondo militare, fatto da ufficiali, sottufficiali, aiutanti di campo, caporali, mostrine, buoni di razionamento e fogli di viaggio. Un mondo nuovo, dove Tolja non osa dire che vuole diventare uno scienziato, che vuole iscriversi alla facoltà di Matematica e Fisica, che ha intenzione di fare scoperte meravigliose, che poco prima della guerra ha cominciato a costruire un televisore.

    Il 5 settembre

    Gli artiglieri si preparano. Il battaglione di Tolja deve disporsi su un’altura. Ma i camion in cima alla falesia non possono salire perché il pendio è erto e franoso. Tolja, lercio e sudato, dà una mano ai suoi uomini a spingere i cannoni verso la cima, organizza una catena umana tra i camion di sotto e la sommità del pendio, si arrampica lui stesso sul camion e dà una mano a scaricare.

    Ecco arriva giù dal pendio un sergente; gli dice che il comandante della batteria è stato ferito e che deve prendere subito il comando lui stesso. Si arrampicano sulla parete erta e franosa di ghiaietta, il sergente si aiuta con le mani e le ginocchia.

    Il sole sul fiume esalta i colori, e fa brillare un paesaggio grandioso sul quale dovrebbe dominare il silenzio.Invece il frastuono dei duelli aerei squarcia il cielo blu, punteggiato dal bianco delle nuvole lanuginose; il fragore dei cannoni si moltiplica in un’eco rimandata dalla steppa, dal cielo e dal fiume.

    La steppa percorsa da fanti e blindati

    Gli aerei già passano a filo d’acqua sul fiume. Subito dopo si muove la fanteria protetta dagli aerei e dai blindati. La steppa si copre di polvere opaca e fumo. Si ode un fragore confuso, prodotto da rumori diversi: dalla deflagrazione dei cannoni, dal rombo dei carri, dai lunghi urrà dei fanti all’attacco, dai fischi degli ufficiali, dal rombo dei caccia, dal crepitare delle loro mitragliatrici, dalle esplosioni secche degli obici.

    L’ora di gloria

    Quando, ricevuto gli ordini, di botto ha immaginato un piano audace. Ha fatto posizionare i cannoni in modo molto insolito, ma tale da essere molto preciso nel colpire. Chiestogli conto dal suo superiore, gli è riuscito di essere molto convincente. Sparita la timidezza!

    Tolja apre il fuoco, e i suoi colpi sono così esatti da gettare lo scompiglio tra i blindati nemici che schizzano fuori dai cespugli e dai giardini dove stavano riparati, senza saper individuare il punto da cui provengono i colpi stessi. Il comandante, che poco prima al telefono quasi non lo riconosceva per il tono di voce insolitamente sicuro, ora si felicita con lui.Un giorno memorabile. Tolja ha vissuto in quel giorno più esperienze che in tutta la sua breve vita.  

    Il morale alle stelle

    La batteria di Tolja è così avanzata che un aereo sovietico l’attacca e tre Messner accorrono in sua difesa. Grande risata di Tolja e dei suoi uomini. Morale altissimo. Ma…

    Sera

    Tolja si riposa un po’ appoggiato ad un palo del telegrafo. Ha le labbra riarse, la gola secca, mangia pane raffermo, ma gode il suo riposo. Il Volga è bello la sera, è pieno di colore: lui lo guarda dall’alto. Il fiume è blu, poi rosa, poi color perla con riflessi di seta grigia; dal fiume viene una frescura che ha in sé l’odore dolce-amaro dell’assenzio della steppa. Il palo del telegrafo canta, come nella steppa dove il vento lo fa frusciare, muovendo i suoi cavi come fossero corde di un violino.

    Tolja gode questa musica strana e fantastica: già si vede molto famoso, soprattutto tra le ragazze dell’infermeria che gli hanno sempre dato tanto imbarazzo, e tra i compagni di scuola di sua sorella, e tra i colleghi del suo patrigno, il professor Štrum ..

    Notte

    Al cader della notte i tedeschi riprendono l’attacco. Il paesaggio brillante e amico del giorno non esiste più, è diventato un bozzetto piatto, disegnato su una carta lisa, senza più valli, senza colline, senza fiume, solo quote e altitudini, e barriere idrologiche, e terreno accidentato. 

    Il buio della steppa è tagliato dalla luce sinistra dei bengala. Adesso i tedeschi hanno individuato la batteria di Tolja, adesso sanno dove sparare. 

    I primi colpi arrivano; i primi feriti si lamentano; il palo del telegrafo è falciato da un colpo di mortaio. Tolja ha la sensazione che non finirà mai, che da ogni dove spunteranno i nemici. Ha la bocca secca, una sgradevole sensazione di terra sotto i denti. Vuole una cosa sola, Tolja: vedere il mattino. E lo vede infatti.

    Tolja con la sua gola riarsa urla un ordine. Poi una luce accecante e qualcosa come un pugno lo colpisce al ventre. Cade. Sente gridare. Qualcuno chiama un infermiere…

    Un pacco alla stazione
    Un pacco alla stazione

    Tolja vede i visi dei soldati chini su di lui, preoccupati e pietosi. Chissà perché, si domanda, certo è stato colpito qualcuno. Non lui. Sta per alzarsi, ripulirsi, scendere al fiume e lavarsi con quella sua acqua meravigliosa, fredda e dolce, e poi è pronto a riprendere il suo posto.

    L’epilogo è molte pagine dopo, ma Tolja sarà già morto, quando sua madre lo raggiungerà all’ospedale delle retrovie, in cui è stato operato e non è sopravvissuto. Sono, in Vita e destino, le pagine dell’interminabile viaggio di Ljudmila, da Kazan’ a Saratov; sono le pagine strazianti dell’involto che contiene la divisa insanguinata di suo figlio; sono le pagine della notte dolorosa spesa sulla fossa, dove il suo ragazzo ha almeno trovato sepoltura.

    Su Vasilij Grossman

    Di Vasilij Grossman si è già occupata la nostra rubrica di letteratura. La famiglia di Vasilij Grossman (1905-1964) è ebrea, ed è ucraina, non parla yiddish, ma russo. La formazione di Grossman è la chimica, studia a Mosca e lavora nei primi anni Trenta come ingegnere nel bacino minerario del Donbass. In quegli anni decide di diventare uno scrittore, in russo. Ebreo, ucraino, russo, europeo, Donbass…. dovrebbe già essere scattato un campanello di attenzione nella vostra mente: luoghi e condizione di Grossman hanno a che fare con la crisi che ci affligge da almeno due anni. 

    Quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica era il 22 giugno 1941; Grossman si arruolò immediatamente e fu destinato a Stella Rossa, il giornale dell’esercito. Nell’ottobre ’42 fu a lungo a Stalingrado sulla riva destra del Volga, nel cuore cioè della guerriglia sovietica contro i tedeschi. Da questo momento in poi Stalingrado occupa progressivamente il centro della sua scrittura .

    Nascono negli stessi anni, tra la metà degli anni ’40 e i primi anni ’60, opere di grande valore: e tra queste c’è un capolavoro: la dilogia di Stalingrado: Vita e destino (sequestrato dal KGB nel 1962), e il suo “prequel”, un romanzo scritto subito dopo la guerra, pubblicato in URSS col titolo Per una giusta causa all’inizio degli anni Cinquanta dopo uno strenuo braccio di ferro con la censura.

    Per saperne di più consultate l’enciclopedia Treccani.

  • Un pacco alla stazione. Tonalità. Episodio5.

    Un pacco alla stazione. Tonalità. Episodio5.

    Un pacco alla stazione è un episodio della webserie TONALITÀ, la cifra di Vasilij Grossman prodotta da ItalianaContemporanea. Ciascun episodio ha un suo tono particolare. L’idea è di far sentire a chi legge l’ampiezza dei registri espressivi che il testo conserva anche in traduzione.

    EPISODIO 5

    Un pacco alla stazione

    Un pacco alla stazione è la storia malinconica e gentile di Lena, una giovanissima infermiera sul fronte più cruento. Nella lotta accanita per la stazione c’è anche la storia mesta dell’amore di Lena per Kovalëv, giovane e valoroso ufficiale della XIII Divisone della Guardia. Un tono sentimentale nella bruttura della guerra.

    .

    Un pacco alla stazione. È uno di quei pacchi che giungono in URSS con i convogli di aiuti militari degli Alleati. Viene da un altro mondo, un mondo dove non è neppure immaginabile la quotidianità di Lena, infermiera del battaglione che ha appena rioccupato la stazione di Stalingrado, e che fronteggia i tedeschi, ancora in forze alla metà di settembre. Lena assiste ogni giorno decine di feriti e moribondi. Ha una giacca sola, troppo grande, strappata e macchiata, come i suoi stivali, grossi insanguinati impossibili da pulire. La sua treccia è sfatta e sporca, non ha acqua per lavarsi, non ha niente per cambiarsi. Così, quando apre il pacco e vede il bell’abito di ottimo cotone, il gilet di lana con un grazioso motivo verde blu e rosso, la biancheria col pizzo, l’accappatoio (!)…, ha un momento di pura gioia.

    Il suo sguardo è «pieno di grazia, di femminilità»
    e per un attimo, cala il silenzio sulla stazione sconvolta
    «per non disperdere questa espressione del suo viso».

    Per un attimo solo! perché Lena lascia il pacco dov’è.

    Lena e il pacco della stazione

    Anche alla stazione come al 6/1 si combatte accanitamente, e si vive tuttavia intensamente. La storia d’amore tra Lena e Kovalëv è gemella di quella tra Katja e  Serëža al 6/1. Qui però il finale non è aperto, ma definito con la morte di entrambi in combattimento. C’è un sentimento che accomuna le due ragazze: il disagio per la tensione maschile che avvertono intorno a loro; il timore è che il loro destino sia già segnato con quell’orribile espressione “donne da campo”. Katja è spaventata, e cerca protezione; Lena reagisce ostentando la propria disinvolta sicurezza. Lena non vuole essere in balia degli eventi, Lena sceglie consapevolmente, prima Filiaškin, perché le piace, e poi Kovaliov, perché se ne innamora. 

    Un pacco alla stazione Lena

    Una o due sere prima della fine, in una tregua dopo aspri combattimenti, Filiaškin chiama Lena al comando; vuole regalarle un pacco giunto alla stazione con gli aiuti americani. Filiaškin si sente in colpa verso Lena, pensa di essersi comportato disonestamente, vuole in qualche modo risarcirla con un regalo, e l’unico possibile è quel pacco.

    Lena lo apre, e grande è il suo piacere alla vista di quelle cose, belle e normali in un mondo ristabilito nei suoi ritmi, un mondo dove lavarsi non è un evento straordinario. Ma subito sente che quelle belle cose, che le piacciono, non le può accettare, perché sono dono di Filiaškin, perché ne avverte il valore di risarcimento.  Il prezzo di una donna “da campo”. E lei non è, una donna da campo.

    Così con i suoi abiti sporchi e fuori misura, i suoi brutti stivali, le mani con le unghie nere, lascia il pacco in un angolo e dice che non ne ha bisogno. A Filiaškin che cerca in qualche modo di scusarsi, risponde fiera: «Non sono una bambina. Sapevo quel che facevo». Morirà poche ore dopo, senza essere riuscita a fare la pace con Kovaliëv, e senza aver mai usato questa bella biancheria inutile, che finirà nelle mani del soldato Stumpfe, un saccheggiatore privo di scrupoli.

    Kovalëv e il suo zaino

    Kovalëv è un giovane ufficiale, di una divisione d’élite dell’Armata Rossa: la XIII Divisione della Guardia che combatte sulla riva destra del Volga sotto il comando del generale Rodimcev. Anche lui è giovanissimo, ma combatte già da qualche mese, facendosi onore: è decorato con due medaglie al coraggio ed ha una cicatrice sulla tempia. Il racconto insiste molto sul motivo della giovinezza di Kovalëv, e di Lena e di tanti giovanissimi travolti dalla guerra. Sottolinea così il copioso tributo di sangue versato dalla gioventù sovietica negli anni dell’invasione.

    Un pacco alla stazione Kovalëv

    La povertà di Kovalëv è narrata attraverso una minuta, e commovente, descrizione degli oggetti custoditi con cura nel suo zaino smilzo.

    Lo zaino smilzo di Kovalëv è il contrappunto al pacco ricco della stazione.

    L’ultimo mesto dialogo

    È notte ormai, Lena ha lasciato per terra gli elegantissimi e inutili vestiti americani del pacco alla stazione. Ha lasciato stupefatto il comandante Filjaškin, che comunque non capisce il suo gesto. Passa da Miša Kovalëv. Vuol fare la pace con lui. Vuole dirgli che non lo ha ingannato. Ma lui è brusco e irremovibile.

    È la tristezza di Lena a segnare questo ultimo incontro con Miša Kovalëv. È un momento di tregua. Qualche ora dopo i combattimenti riprendono furiosi. Kovalëv muore colpito da una pallottola in mezzo agli occhi. Lena con tutti i feriti che assiste muove per l’esplosione di una bomba sganciata da uno Junker.

    Un pacco alla stazione
    Un pacco alla stazione

    Nella luce dell’aurora il fumo denso sollevato dall’esplosione si colorò di rosso. Una nuvola leggera rimase per un po’ sospesa nell’aria, poi il vento del Volga la soffiò verso ovest e la disperse per la steppa.

    Così si chiude il capitolo dedicato a Lena e alla sua fine. Raccontare la guerra esige un impasto grasso e denso. Lena e Kovalëv, che nella guerra hanno speso gran parte della loro breve vita, sono fatti però di un’altra pasta, più soffice e destinata a durare poco.

    LA WEBSERIE “TONALITÀ” NELLE VARIE PUNTATE VI FARÀ ASCOLTARE TUTTI QUESTI TONI. VI DARANNO UN’IDEA DI COS’ È UN GRANDE SCRITTORE!i

    Su Vasilij Grossman

    Di Vasilij Grossman si è già occupata la nostra rubrica di letteratura. La famiglia di Vasilij Grossman (1905-1964) è ebrea, ed è ucraina, non parla yiddish, ma russo. La formazione di Grossman è la chimica, studia a Mosca e lavora nei primi anni Trenta come ingegnere nel bacino minerario del Donbass. In quegli anni decide di diventare uno scrittore, in russo. Ebreo, ucraino, russo, europeo, Donbass…. dovrebbe già essere scattato un campanello di attenzione nella vostra mente: luoghi e condizione di Grossman hanno a che fare con la crisi che ci affligge da almeno due anni. 

    Quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica era il 22 giugno 1941; Grossman si arruolò immediatamente e fu destinato a Stella Rossa, il giornale dell’esercito. Nell’ottobre ’42 fu a lungo a Stalingrado sulla riva destra del Volga, nel cuore cioè della guerriglia sovietica contro i tedeschi. Da questo momento in poi Stalingrado occupa progressivamente il centro della sua scrittura .

    Nascono negli stessi anni, tra la metà degli anni ’40 e i primi anni ’60, opere di grande valore: e tra queste c’è un capolavoro: la dilogia di Stalingrado: Vita e destino (sequestrato dal KGB nel 1962), e il suo “prequel”, un romanzo scritto subito dopo la guerra, pubblicato in URSS col titolo Per una giusta causa all’inizio degli anni Cinquanta dopo uno strenuo braccio di ferro con la censura.

    Per saperne di più consultate l’enciclopedia Treccani.

  • Vita al civico 6/1. Tonalità Episodio6

    Vita al civico 6/1. Tonalità Episodio6

    Vita al civico 6/1 è un episodio della webserie TONALITÀ, la cifra di Vasilij Grossman prodotta da ItalianaContemporanea. Ciascun episodio ha un suo tono particolare. L’idea è di far sentire a chi legge l’ampiezza dei registri espressivi che il testo conserva anche in traduzione. 

    Episodio 6

    Vita al civico 6/1 . Questabcasa rappresenta nel racconto grossmaniano tutti i luoghi della città, edifici pubblici, case, vie, piazze in cui si combatté accanitamente per ogni piano, per ogni stanza, per ogni metro.

    Se è ignota l’identità dei molti che combatterono accanitamente contro i tedeschi in ogni casa, ecco che il romanzo la restituisce loro, attraverso i suoi personaggi: un comune campione di umanità, raccontato con punte di umorismo e arguzia. Morte e distruzione e tragedia sono su un altro registro. Qui il tono è scanzonato.

    È il tono della gente ordinaria:
    spaventata, e beffarda!

    Vita al civico 6/1

    Il gruppo del 6/1 contrasta il nemico disturbandone le azioni. Gli ufficiali sono morti tutti, perciò il comando è passato nelle mani di Vanja Grekov. Sono tutti uomini, finché negli ultimi giorni prima della fine, giunge tra loro una giovanissima marconista Katja Vengrova.

    Il 6/1 e la stazione: due episodi di guerra, uno doppio dell’altro

    L’episodio del 6/1 è il doppio dell’episodio della stazione (si veda l’episodio Un pacco alla stazione) per tre ragioni. Anzitutto perché i due episodi lasciano intravvedere in trasparenza due fatti storicamente accaduti (la lotta durissima per il controllo della stazione di Stalingraso a settembre 1942, il primo; la casa di Pavlov, e la distruzione della Fabbrica Trattori dell’ottobre, il secondo). Poi perché entrambi i gruppi di resistenti ha rapporti molto difficili con i superiori. Infine perché nei due episodi speculari in cui si narra l’inferno di Stalingrado, prendono vita due storie d’amore, quella del giovane tenente Kovaliov per Lena, infermiera, e quella del giovane volontario Sergej per Katia, marconista. 

    Un comune campione di umanità

    Ma facciamo la conoscenza ora di qualcuno degli uomini del 6/1 e di Katja. Un comune campione di umanità., che è cosciente di avere limitatissime possibilità di sopravvivere, ma anche sotto l’attacco nemico deve pur sempre vivere. E si fa coraggio deridendo il nemico: «Poveri crucchi, quanto si danno da fare…», «Cosa non s’inventano…», «Ma dove le butta le bombe, quello scemo?»….

    Batrakov

    Anciferov

    Ljakov e la lepre

    Katja

    L’unico che non le fa paura è Serëža, perché è giovanissimo, e sta da volontario in mezzo all’inferno di Stalingrado. Con lei si comporta in modo perfino più sgarbato e screanzato di chiunque. Per questo tutti gli altri uomini del 6/1 danno a zero le possibilità di Serëža con Katja. E si sbagliano. I due giovani riescono a isolare un momento privato, nel buio squarciato dai lampi delle esplosioni, si scambiano la promessa di reciproco ed eterno amore, e si addormentano sul cappotto. Grekov li vede. Li manda a chiamare la mattina dopo: «Tu vai allo stato maggiore». Ci tratta come servi della gleba, pensa Serëža, ma Grekov aggiunge: «La marconista viene con te» e li congeda, affettuoso e triste insieme, in modo che abbiano la possibilità di mettersi in salvo. La loro sorte non è nota. Scompaiono dal racconto. Potrebbero essersi salvati o no. Però è il comportamento di Vanja Grekov, non abbruttito dalla guerra, a proiettarli verso il futuro!

    Su Vasilij Grossman

    Di Vasilij Grossman si è già occupata la nostra rubrica di letteratura. La famiglia di Vasilij Grossman (1905-1964) è ebrea, ed è ucraina, non parla yiddish, ma russo. La formazione di Grossman è la chimica, studia a Mosca e lavora nei primi anni Trenta come ingegnere nel bacino minerario del Donbass. In quegli anni decide di diventare uno scrittore, in russo. Ebreo, ucraino, russo, europeo, Donbass…. dovrebbe già essere scattato un campanello di attenzione nella vostra mente: luoghi e condizione di Grossman hanno a che fare con la crisi che ci affligge da almeno due anni. 

    Quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica era il 22 giugno 1941; Grossman si arruolò immediatamente e fu destinato a Stella Rossa, il giornale dell’esercito. Nell’ottobre ’42 fu a lungo a Stalingrado sulla riva destra del Volga, nel cuore cioè della guerriglia sovietica contro i tedeschi. Da questo momento in poi Stalingrado occupa progressivamente il centro della sua scrittura .

    Nascono negli stessi anni, tra la metà degli anni ’40 e i primi anni ’60, opere di grande valore: e tra queste c’è un capolavoro: la dilogia di Stalingrado: Vita e destino (sequestrato dal KGB nel 1962), e il suo “prequel”, un romanzo scritto subito dopo la guerra, pubblicato in URSS col titolo Per una giusta causa all’inizio degli anni Cinquanta dopo uno strenuo braccio di ferro con la censura.

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  • Scene da un matrimonio. Tonalità. Episodio 4

    Scene da un matrimonio. Tonalità. Episodio 4

    Scene da un matrimonio è l’episodio 4 della webserie TONALITÀ, la cifra di Vasilij Grossman prodotta da ItalianaContemporanea. Ciascun episodio ha un suo tono particolare. L’idea è di far sentire a chi legge l’ampiezza dei registri espressivi che il testo conserva anche in traduzione.

    Nell’estate 1942 su Stalingrado grava ormai la minaccia della guerra, ma chi nella città vive, continua a vivere secondo le proprie abitudini. È così per Pavel Andreevič Andreev, operaio della fonderia Ottobre Rosso, e Varvara, sua moglie. La scena si svolge a casa loro, nella loro cucina. Lui sta cenando prima di iniziare il turno di notte in fabbrica, lei è in piedi pronta a servirlo come di consueto nei quarant’anni della loro vita comune. Ma per capire cosa succede, è necessaria qualche info sui protagonisti di questa scena.

    Varvara

    Scene da un matrimonio

    Scene da un matrimonio. Figlia di un meccanico, da ragazza Varvara era una vera bellezza, e le sue amiche dicevano che il matrimonio con Pavel non era stato una gran fortuna, dopotutto era solo capofuochista su un rimorchiatore del Volga. Una ragazza bella così avrebbe potuto mirare molto più in alto, ad esempio avrebbe potuto sposare un capitano, o il padrone di un ristorante all’imbarcadero di Caricyn, o un commerciante. Perché aveva scelto Pavel? Lui aveva minacciato di affogarsi nel Volga, se lei lo avesse respinto; lei gli aveva dato la sua parola, ed era stato per sempre. Certo, nei primi anni la sua vita di moglie era stata difficile; anche se non l’aveva mai confessato a nessuno, in realtà sognava di vivere a Saratov o a Samara, e d’andare a teatro in carrozza. Perché aveva sposato Pavel? Perché gli vuol bene. E lui ne vuole a lei. Pavel è un uomo per bene.

    Pavel

    Scene da un matrimonio. Pavel è anzitutto un operaio così esperto che gli ingegneri spesso gli chiedono consiglio ed evitano di contraddirlo. Lui non ha bisogno di consultare i dati di laboratorio per sapere cosa contiene un letto di fusione. Benché assiduo frequentatore della biblioteca, non ha mai letto niente sull’argomento della metallurgia o della siderurgia, né manuali sui processi chimici o chimico-fisici di fusione dell’acciaio. Non per disprezzo della scienza, che è la base del suo mestiere. È che i poeti «non hanno bisogno di manuali di poesia. Sono loro a determinare la nascita del verso e le leggi della parola».  Pavel segue nel suo lavoro la stessa via degli ingegneri, solo che lo fa istintivamente. La competenza fisico-chimica è connaturata al cristallino del suo occhio, alla sensibilità tattile delle sue dita e delle sue palme, cioè delle sue mani, sta nel suo orecchio, e nella sua memoria, custode di decenni di lavoro.

    Pavel è stimato in fabbrica. Questo dà a sua moglie Varvara molta soddisfazione. Varvara sa l’importanza di essere giudicato come bravo operaio in una città operaia. Un volta, per un Primo Maggio erano venuti a trovarli a casa il direttore e l’ingegnere capo della fabbrica: che emozione vedere le due automobili ferme davanti alla sua casa e che gusto l’invidia delle vicine! Le si erano gelate le mani per l’agitazione, mentre suo marito si comportava come fosse venuto a trovarli quel buffone del suo amico Poljakov. 

    Dopo la guerra civile Poljakov ha lavorato a Rostov, a Mosca, a Baku. A Stalingrado tutti lo conoscono. È un bravo falegname. Parla spesso di quello che ha costruito in città, le assi, i parquet, le porte, le finestre,… e suoi compagni hanno l’impressione che in realtà questo falegname, sempre contento e brontolone, sia giunto nella steppa per difendere col suo mortaio tutto quello che ha costruito. Perché è uno che ama il suo lavoro. Quando parla dei suoi attrezzi da falegname e degli oggetti che costruisce siano essi di frassino, d’acero, di quercia, di faggio, ha in viso l’espressione del goloso; i suoi occhietti brillano, quando espone la sua semplice filosofia di vita: il suo lavoro serve a far piacevole la vita della gente; e chi lavora è degno d’essere libero, sazio e felice.

    La lite in cucina

    La casa

    Scene da un matrimonio

    Scene da un matrimonio

    Mai litigato prima per la casa e gli oggetti enormemente cari a Varvara, prima! Ma da quando ha deciso di partire, Varvara è scontenta. Ha nascosto sottoterra in cantina, nell’orto, nel frutteto le cose più preziose, ma è preoccupata: le sue amate cose si rovineranno, saranno rubate, e chi le potrà mai custodire? Certo, suo marito rimane, è un ostinato che non vuol partire, e pensare che ha un’invalidità di seconda categoria; ma è un invalido, un vecchio, potrà mai fare la guardia alla casa?
    «Insomma, replica lui stizzito, non ho capito se ti preoccupi per me o vuoi che resti a fare la guardia ai tuoi tesori»

    La nuora

    La nuora è un altro argomento di aspra discussione tra marito e moglie. Pavel le rimprovera il malanimo contro Natal’ja.

    È un dolore senza consolazione ciò che rende Varvara così dura con Natal’ja: è il dolore per la perdita di Anatoli, suo figlio che è morto al fronte. È un’intollerabile ingiustizia che sua figlio sia morto e la nuora lavori, vada al cinema, rientri tardi la sera, insomma che non sia morta. Le due donne soffrono il medesimo lutto, ma ognuna a suo modo, e nessuna delle due può consolare il pianto dell’altra.

    Scene da un matrimonio

    Scene da un matrimonio

    Scene da un matrimonio

    Scene da un matrimonio

    Separazione

    Varvara e Natal’ja Partono infine con il piccolo Volodia, s’imbarcano proprio nel giorno in cui Stalingrado è bombardata, e solo per caso non finiscono in fondo al Volga come Marusja che è con loro. Varvara muore poche settimane dopo per una polmonite. 

    Pavel, che è ritornato sulla riva destra dopo essere stato evacuato con tutti gli operai delle fabbriche nei primi giorni di settembre, lavora adesso alla centrale: il suo amico Spiridonov gli ha trovato un posto e lì rimarrà fino alla liberazione di Stalingrado. Riceve una lettera che gli annuncia la morte di Varvara e si chiude sempre di più in se stesso. Gli manca sua moglie. La sua vita era sempre stata accanto a lei, «quanto di bello o brutto gli succedeva, l’allegria o la tristezza, esistevano solamente rispecchiate nel cuore di Varvara Aleksandrovna». Gli pare che la sua vita sia un mucchio di macerie, come quelle che vede intorno a sé.

    Rivede sua moglie com’era, giovane, dalle mani abbronzate, gli occhi allegri; rivede la cucina chiara di sole dove ha sempre fatto colazione con lei, pronta a intuire cosa volesse mangiare; e si sente orribilmente solo. Non vuole lasciare la città nemmeno dopo il bombardamento che mette definitivamente fuori uso la Stalgres, perché, se non se ne va, gli pare di mantenere un legame con la sua vita passata, con Varvara.

    Su Vasilij Grossman

    Di Vasilij Grossman si è già occupata la nostra rubrica di letteratura. La famiglia di Vasilij Grossman (1905-1964) è ebrea, ed è ucraina, non parla yiddish, ma russo. La formazione di Grossman è la chimica, studia a Mosca e lavora nei primi anni Trenta come ingegnere nel bacino minerario del Donbass. In quegli anni decide di diventare uno scrittore, in russo. Ebreo, ucraino, russo, europeo, Donbass…. dovrebbe già essere scattato un campanello di attenzione nella vostra mente: luoghi e condizione di Grossman hanno a che fare con la crisi che ci affligge da almeno due anni. 

    Quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica era il 22 giugno 1941; Grossman si arruolò immediatamente e fu destinato a Stella Rossa, il giornale dell’esercito. Nell’ottobre ’42 fu a lungo a Stalingrado sulla riva destra del Volga, nel cuore cioè della guerriglia sovietica contro i tedeschi. Da questo momento in poi Stalingrado occupa progressivamente il centro della sua scrittura .

    Nascono negli stessi anni, tra la metà degli anni ’40 e i primi anni ’60, opere di grande valore: e tra queste c’è un capolavoro: la dilogia di Stalingrado: Vita e destino (sequestrato dal KGB nel 1962), e il suo “prequel”, un romanzo scritto subito dopo la guerra, pubblicato in URSS col titolo Per una giusta causa all’inizio degli anni Cinquanta dopo uno strenuo braccio di ferro con la censura.

    Per saperne di più consultate l’enciclopedia Treccani.

  • Oppenheimer

    Oppenheimer

    Un tema del film dedicato a Oppenheimer di Christopher Nolan rimasto in ombra. Per “Figure di maestri” in Camelot.

    Il dilemma morale non è tanto se fosse giusto preparare una bomba, una bomba così micidiale, una bomba mai vista prima tanto inusuale che genera il timore di non saper controllare la reazione, e di distruggere l’intero pianeta. I nazisti stanno sterminando l’intero popolo ebraico, e non solo, i giapponesi combattono una guerra crudele e senza fine: la bomba in quel momento è l’arma più potente, è l’arma che mette fine ad una guerra che più di ogni altra guerra umana è malvagia, sudicia e trapunta d’orrore.

    Più che un dilemma morale Oppenheimer vive una tormentosa certezza: l’umanità nel suo insieme e gli uomini che governano in particolare sono del tutto impreparati a comprendere cosa sia in realtà l’energia nucleare. Per questo possono usarla in modo insensato e autodistruttivo. Per questo Loa Alamos va restituito agli indiani!

    Non sono parole profetiche? ma no non è profezia. È lucida deduzione. “Tagliagole contro macellai a Gaza a Bucha e ovunque

    Quando va dal presidente Truman e drammaticamente gli dice che le sue mani sono coperte di sangue, Oppenheimer non è un ingenuo che si accorge troppo tardi di aver sbagliato. È fargli torto a giudicarlo “ingenuo”: è un fisico brillante e sa benissimo cosa significhi usare l’energia atomica, sa benissimo perché Einstein non vuol essere parte di questo progetto. Ma va avanti. E la sua motivazione non è il desiderio di conoscenza coltivato da ogni scienziato che si rispetti. Oh no! la sua motivazione, nel film, in questo film, è simile a quella di molti altri esseri umani: Hitler va fermato, Hitler sta sterminando gli ebrei, sta mettendo sotto il tallone della Gestapo tutta l’Europa, da dove viene gran parte degli americani, dove vivono ancora le loro famiglie, solo Stalingrado resiste! E quando la bomba è pronta Hitler è già stato sconfitto in maggio 1945, l’esperimento di Los Alamos è di luglio 1945: perché andare avanti? si domanda Oppenheimer e altri scienziati? Perché la guerra contro il Giappone continua e costa molte vite umane, molte vite dei “nostri”. Questo dice il presidente Truman congratulandosi con Oppenheimer, quando lo riceve alla Casa Bianca.

    Oppenheimer chiede a Truman di chiudere Los Alamos

    Su italianaContemporanea due interessanti recensioni di Oppenheimer, una di Gianni Canova e l’altra di Roberto Recchioni.

    Oppenheimer non è concentrato sul passato in questa scena del film. Pensa al futuro. Per questo dice che Los Alamos deve essere chiuso. Quel posto va restituito agli indiani! La preoccupazione tormentosa che ha e che lo perseguiterà per la vita è che l’umanità è fatta da gente che non ha idea di quel che veramente è l’energia nucleare, non solo la gente comune, ma pure i leader, i politici che governano. Quindi faranno un uso sconsiderato dell’energia nucleare e di tutti gli ordigni che costruiranno e che genereranno un oceano di sofferenza.

    Enzo Biagi intervista qui Emilio Segré molti anni dopo.

    Non è chiaro che il tormento di Oppenheimer aveva molte ragioni di esistere?

  • Perché la Cina non s’industrializzò, prima/1

    Perché la Cina non s’industrializzò, prima/1

    Perché la Cina non s’industrializzò, prima. «Il più grande enigma della storia della tecnologia è l’insuccesso della Cina nel mantenere la sua supremazia tecnologica. Nei secoli precedenti il 1400, la Cina sviluppò un impetuoso slancio tecnologico, avanzando ad un tasso pari, se non superiore, a quello dell’Europa, per quanto si può calcolare. La maggior parte delle loro innovazioni trovò successivamente la strada verso l’Europa, o attraverso l’importazione diretta oppure attraverso una loro autonoma reinvenzione. Ecco riassunte alcune delle conquiste della Cina»

    È l'incipit dell'ottavo capitolo "La Cina e l'Europa", del saggio di Joel Mokyr, dal titolo La leva della ricchezza. Creatività tecnologica e progresso economico, edito da il Mulino, Bologna, 1995. La discussione verte sulle cause dell'arretratezza accumulata dal XV secolo fino al XX. Nella prima parte è descritta la superiorità tecnologica cinese. Nella seconda parte si esaminano le possibili ragioni del declino e la tesi di fondo... giustifica la collocazione di questa lettura nel capitolo Scienza&Libertà.

    Prima parte. Le invenzioni cinesi fino al XV secolo

    1. Importanti miglioramenti nella coltivazione del riso rivoluzionarono l’agricoltura cinese. Una migliore padronanza delle tecniche di allagamento dei campi permise una eccezionale espansione della coltivazione del riso nelle regioni meridionali. Il governo delle acque attraverso opere di ingegneria idraulica (dighe, canali di irrigazione, argini, polder, paratie) permetteva il drenaggio e l’irrigazione delle terre. Sofisticate paratie a serranda, pompe e norie (meccanismo che sollevava l’acqua impiegando una catena di secchi mossi dalla stessa corrente d’acqua che la rendeva una pompa perfettamente automatizzata) governavano il flusso d’acqua e ostacolavano l’infangamento. È stato valutato che tra il decimo e il quindicesimo secolo il numero di progetti per il governo delle acque in.Cina incrementò di sette volte, mentre la popolazione al massimo raddoppiò [Perkins 1969, 61]. Leggi di più

  • La luna

    La luna

    La luna immagine di libertà creativa, indispensabile al pensiero scientifico (Scienza e libertà). Sono versi endecasillabi e settenari sciolti.

    La luna è divano di sogni,
            è album di ricordi,
            è sogno di pienezza,
            
            è timore del nulla.
    
            Spada tagliente, lampada accesa
    nella notte oscura,
            la luna ci è guida nel presente,
    offuscando le stelle.
    
    Nemica delle nuvole e del buio, 
            disegna coi suoi raggi su nel cielo
    profondità abissali, e vicine.
    
            O graziosa luna, dove sei?
  • Inno alla gioia 🅰️

    Inno alla gioia 🅰️

    L’inno alla gioia è il movimento finale della Nona sinfonia composta nel 1823 da Ludwig Van Beethoven, una delle figure più alte dell’arte europea. Egli musicò un testo composto nel 1785 da un altro grande artista, Friedrich von Schiller. Parole che auspicano la fratellanza tra tutti i popoli del mondo.
    Nel 1985 questo inno venne adottato dai capi di Stato e di governo dell’UE come inno ufficiale dell’Unione Europea.

    L’inno alla gioia, capite? Niente più “stringiamci a coorte, siam pronti alla morte” , niente più “Aux armes citoyens”, superati “Deutschland, Deutschland über alles”, e “God save the King”: gli inni nazionali evocano scenari di morte: pericolo, armi, volontà di supremazia.
    Ma l’inno europeo no! questo inno parla della gioia, figlia della luce, il cui raggio consola il pianto, sperde l’ira e fa fuggire il dolore… la gioia che tutti gli esseri umani devono e possono ricercare perché è il loro scopo comune. Leggi di più

    Inno alla gioia in italiano

    Del testo esistono diverse varianti italiane, tra cui quella composta da Arrigo Boito (1842-1918), arcaica ma sicuramente la più ritmica. Ecco una versione che permette di ascoltare con chiarezza il testo di Arrigo Boito.

    Qui il testo completo.

    Inno alla gioia in piazza

    Coro e Orchestra di Vicenza. FlashMob in piazza dei Signori, il 26 giugno 2018.

    Inno alla gioia

    E qui una esecuzione orchestrale. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala. Direttore Daniel Barenboim. Il concerto, in onore del Santo Padre e delle Delegazioni Ufficiali dell’Incontro Mondiale delle Famiglie, si tenne nel Teatro alla Scala di Milano, il 1° giugno 2012.


  • Il vecchio Qfwfq 🅰️

    Il vecchio Qfwfq 🅰️

    Il vecchio Qfwfq 🅰️. È il titolo del brano, audio, che analizza la percezione comune del concetto di scienza e metodo scientifico.

    È un brano tratto da Dalla mela di Newton all’Arancia di Kubrick: La scienza spiegata con la letteratura, di Marco Salucci, pubblicato da Thedotcompany Edizioni.


    Questa lettura è pubblicata su ItalianaContemporanea Podcast Letture in onda

    Nel testo sono citati tre brani di tre testi letterari che collaborano alla discussione: Le Cosmicomiche di Italo Calvino (e come poteva mancare!?), 1965 , la parodia disneyana della Divina Commedia di Guido Martina (sceneggiatore) e Angelo Bioletto (disegnatore), pubblicata tra il 1949 e 1950; La montagna incantata di Thomas Mann del 1924. Citati anche il film di Christopher Nolan, Interstellar e Il romanzo di Don DeLillo, Rumore bianco. Gli artisti citati sono: Italo Calvino, Thomas Mann, Guido Martina, Angelo Bioletto. Gli studiosi citati sono: Aristotele, e Galileo. Il brano cita anche: Paolo Bozzi, Fisica ingenua, Milano, Feltrinelli 1990; Arthur Eddington, A The Nature of the Physical World, 1928, Cambridge University Press, Richard Feynman Il senso delle cose, (1998), Milano, Adelphi 2010. Citati anche Feyerabend, Paul,  Contro il metodo, (1975), Milano, Feltrinelli 2002. Pagnini, Alessandro, “La cultura filosofica italiana e la scienza”, in Peruzzi A., (a cura di), Atti di Pianeta Galileo 2005, Regione Toscana, Consiglio Regionale, Firenze 2006. Rovelli Carlo, La realtà non è come ci appare, Raffello Cortina, Milano 2014.  Thorne, Kip.


  • Margherita e il Maestro

    Margherita e il Maestro

    Margherita e il Maestro. Ho parafrasato qui il titolo del celebre romanzo di Michail Afanas’evič Bulgakov. Ho scritto questi versi, endecasillabi e settenari sciolti per ricordare la seduzione dell’intelligenza: saper leggere e scrivere un linguaggio di programmazione, più di uno. Ho messo questi versi nella rubrica Figure di Maestri perché sono dedicati a Gianni Degli Antoni.

    Margherita e il Maestro
    
    A GDA
    
    Millenovecentottantaquattro.
    	(George Orwell non c'entra) 
    
    Scena prima. Negozio.
    Vorrei comprare un computer, per scrivere
    	(scrivo molto, lavoro da insegnante).
    Il commesso mi offre due macchine:
    una presenta fondo nero, alieno,
    lettere verdi, semmai più aliene,
    di lucidi cristalli liquidi;
    	l'altra è un Macintosh, è sfavillante.
    	È amore a prima vista!
    Un amore che ancor nel cuor mi dura. 
    
    Ha una tastiera uguale alla Olivetti,
    la mia Lettera Di, amica ben nota,
    regalo di papà in terza media,
    nel millenovecentosessantotto;
    ci ho scritto la tesi di laurea
    nel millenovecentosettantasette.
    
    Il Mac scrive e poi scrive, persino in greco
    	(Salamis, sono i caratteri greci)
    e ha un solo cavo di alimentazione
    e non occorre cacciavite alieno
    per sistemare cavi pure alieni..
    
    Il Mac è un computer per le donne
    sentenziano i colleghi, uomini.
    	
    Certo! Il Mac è così intelligente 
    che non solo sa scrivere (MacWrite),
    ma sa fare anche i conti (Multiplan),
    anche pianificare un lavoro (MacProject),
    e sa anche disegnare (MacPaint).
    
    Non è pesante, non ha cavi al seguito,
    cioè è già trasportabile con borsa;
    	già chiaro esempio di marketing Apple, 
    	quella borsa costava una fortuna!
    		Comunque meno di una borsa Chanel!
    
    Il mio Mac è ancora in casa mia!
    È un oggetto sì decorativo,
    ma soprattutto segno d’un amore
    fedele, come faro nella tempesta,
    Amore non per l’oggetto in sé, 
    	ma per il valore 
    di intelligenza di sapere, di bontà 
    	che porta con sé.
    
    
    Millenovecentottantacinque
    	
    Scena seconda. Università.
    Milano, via Moretto da Brescia.
    Dipartimento Scienza Informazione.
    	Studio del direttore, il professor 
    	Gianni Degli Antoni - GDA -.
    
    Allievi e professore studiano Prolog
    	il fantastico, l’ultimo linguaggio 
    	per la programmazione. 
    		
    	Fogli grandi tappezzano la stanza:
    		il lessico del Prolog,
    		la sintassi del Prolog.
    
    Lessico e sintassi sono oggetti
    consueti familiari abituali
    nella mia educazione: grammatica,
    latino greco, tanta traduzione.
    	
    Ma qui in questo studio gli oggetti
    che conosco, il lessico e la sintassi 
    	brillano di una luce ancor più viva.
    Lo studio rigoroso di grammatica 
    	mi fa capire come funziona
    		un linguaggio di programmazione.
    
    E mi piace imparare altri linguaggi
    per programmare, prima uno poi l’altro,
    	(un VicVenti con logo declinava
    	nomi aggettivi verbi in latino.
    	Qualcuno si ricorda del Commodore 
    	Sessantaquattro per fare grammatica,
    		più altre cose fantasiose, insomma)
    	Finché è arrivato Hypercard.
    	Infine il meglio: acca-ti-emme-elle - html.
    
    Che dire più? certo sono arrivate 
    altre sbalorditive novità:
    	scrivo sul mio iPad, 
    		una bacchetta magica
    	ho a disposizione 
    		l’intelligenza artificiale, certo 
    		rischiosa, ma stellare.
    
    Che dire più? persiste nel mio cuore
    	il sentimento di acuto stupore
    	di meraviglia di felicità
    		del giorno che ho guardato e visto il Mac,
    		del giorno che ho guardato e visto Prolog. 
    
    
    	
  • Quo vadis?

    Quo vadis?

    Quo vadis? Omaggio a Giovanni Degli Antoni – GDA.

    Endecasillabi e settenari sciolti che ho composto in omaggio al professor Giovanni Degli Antoni. Mi chiese una breve testo per il suo ultimo eBook del 2016. Scrissi una prima versione più breve, che poi per ragioni redazionali, così mi disse, fu pubblicata in un formato così breve da perdere di senso. Da allora ho rimaneggiato molto il testo, ed eccolo qui nella sua interezza. Per la rubrica Episteme e techne


    Quo vadis? 
    Il ritmo del respiro.                                      
                                        A gda
    
    Cammino su un sentiero di montagna:
    	dove stai andando? Quo vadis?
    Respiro e nella mente già irrompono,
    disiecta membra, risposte smozzate
    	Libertà va cercando ... 
    	Errai, candido Gino ...
    	Solo l’amare, solo il conoscere/ conta...
    
    Il mio respiro sincopato cento
    ne suggerisce di risposte. Troppe. 	
    Come distinguerò senso e non-senso?
    	 È l’entropia il destino d’ognuno.
    
    Ma   
    
    ... sento che il respiro mio ha un ritmo
    nato dalla fatica dei miei piedi.
    Dal ritmo ecco balugina un senso; 
    l’affanno del respiro ricompone 
    	   solo per un istante
    		               schegge sperse.
    
    Devo pensare, sì!  Alla poesia.
    
    La poesia è voce è suono,
    	è anche e soprattutto respiro.
    E nel respiro trova il suo ritmo.
    
    Se la voce si scrive,
          come si può fingere graficamente 
    		non il suono 
          (per questo fu inventato l’alfabeto)
    	        ma il respiro?
    
    La poesia sarà il modello 
         della prosa che avrà corto il respiro
         o fluido e disteso e articolato.
    La frase troverà una misura, 
    	variabile, ma una misura, 
    e potrà suggerire dunque un ritmo
      (γίνωσκε δ' οἷος ῥυσμός ἀνθρώπους ἔχει.
      e apprendi quale ritmo governa l’umano).
    
         Il ritmo delle idee 
    		non delle parole.
         L'armonia del pensiero si esprime
    		nel respiro della frase.
    
    
    Perché, per ricomporre i brandelli 
    	smarriti di parole amputate
    
    ci vuole orecchio!
  • Physis techne episteme

    Physis techne episteme (φύσις, τέχνη, ‘επιστήμη). La mia tesi di laurea. Titolo. Il pensiero di Anassagora e la ricerca scientifica presso i Greci nella critica italiana e francese dal dopoguerra ad oggi. Il problema del ruolo di Anassagora in Atene democratica.

    Un titolo complesso. Troppo. È il segno distintivo di un approccio giovanile: voler dominare (maldestramente) una materia così ampia che farebbe tremar le vene e i polsi di qualsiasi studioso.

    Presento qui il discorso che tenni durante la seduta d’esame il 16 febbraio 1978. Ma non è la versione originale: è quella che ho riscritto nell’aprile 2023, quando ho usato la mia tesi per un articolo sul Public Speaking, pubblicato su DeltaScienceTutoring.com. Ho riletto quindi la mia tesi quarantacinque anni dopo. Leggi di più

  • Il professor Štrum 🅰️ 

    Il professor Štrum è personaggio centrale dei due romanzi di Vasilij Semënovič Grossman, Stalingrado e Vita e Destino. Lui e il suo maestro, Čepyžin, narrano un’altra porzione del popolo sovietico.

    Non operai o minatori, non contadini, ma scienziati. La loro condizione è agiata, studiano, si interrogano sul rapporto tra teoria e prassi, sulla finalità del sapere. Ma la loro vita è trapassata dal profondo dolore della guerra.

    Čepyžin sconta il dolore della disillusione dopo aver dedicato ogni sua energia allo stato sovietico. Štrum è travolto da una sofferenza continua, senza sollievo: sua madre è assassinata come tutti gli ebrei dei territori occupati ai bordi di una fossa.


    Štrum, l’eroe non-eroe, e il suo maestro, l’affascinante professor Čepyžin

    Questa lettura è pubblicata su ItalianaContemporanea podcast  della dilogia di Stalingrado.  
    La figura di Štrum e del suo doppio merita di essere annoverata nella paginaFigure di Maestri. Riporto qui l'analisi del personaggio del professor Štrum (su Čepyžin, clic qui) che ho pubblicato nel mio saggio Stalingrado, il polittico di Vasilij Grossman. Memorie plurali e memoria di stato. 
    Poiché il mio saggio precede la traduzione italiana del primo dei due romanzi della dilogia, i riferimenti nel testo sono all'edizione francese, quando il romanzo si chiamava ancora "Per una giusta causa"(PGC), il titolo con cui il romanzo fu pubblicato in URSS negli anni 50. "Stalingrado" è il titolo che il suo autore avrebbe voluto, ma per ragioni censorie, cambiò.

    Il professor Viktor Pavlovič Štrum, fisico e matematico, accademico delle Scienze dal 1936, è marito di Ljudmila Nikolaevna, la figlia maggiore di Aleksandra Vladimirovna. Il suo carattere di delinea già nei primi capitoli di Per una giusta causa, quando si racconta in retrospettiva il primo matrimonio di Ljudmila con il bolscevico Abarčuk, il divorzio, l’incontro con Viktor Pavlovič.

    È un giovane universitario molto dotato, radioso, serio solo quando racconta qualcosa di buffo; ama la letteratura, frequenta i teatri, i concerti, adora il circo e i bar dove si ascoltano canti tzigani. Leggi di più

  • L’energia morale

    L’energia morale. Dialogo tra Čepyžin e Štrum. È il primo dei due dialoghi tra questi personaggi della dilogia di Vasilij Grossman.

    Il commento è tratto dal saggio di Ferdinanda Cremascoli Stalingrado, il polittico di Vasilij Grossman. Memorie plurali e memoria di stato.

    Poiché il saggio di F.Cremascoli, pubblicato nel 2020, precede la traduzione italiana del primo dei due romanzi della dilogia, i riferimenti nel testo sono all’edizione francese, che al primo romanzo dà il titolo di “Per una giusta causa”(PGC), il titolo con cui il romanzo fu pubblicato in URSS negli anni 50. “Stalingrado” è il titolo che il suo autore avrebbe voluto, ma per ragioni censorie, cambiò.

    Ci sono due importanti dialoghi tra Čepyžin e Štrum nella dilogia. Il primo è in Per una giusta causa (I, 42), il secondo è in Vita e destino (III, 25). In entrambi è presente il tema della ricerca scientifica, della sua finalità ultima, e delle sue applicazioni tecnologiche.  Nel primo dialogo, con forza, è presente anche il tema dell’energia morale del popolo, che per quanto mutilata, conculcata, lacerata, non può essere distrutta. Leggi di più

  • Il professor Čepyžin

    Il tema della vita e della sua forza irriducibile, il tema della finalità e del senso della ricerca scientifica sono al centro anche della riflessione del maestro di Štrum, il professor Dmitrij Petrovič Čepyžin.

    Il professor Čepyzin è il maestro di Štrum. La sua figura è presente nei due romanzi di Vasilij Semënovič Grossman, Stalingrado e Vita e Destino.

    Riporto qui l'analisi del personaggio (PGC, I, 33; PGC I, 41 e 42; VD III, 25) che ho pubblicato nel mio saggio Stalingrado, il polittico di Vasilij Grossman. Memorie plurali e memoria di stato. Poiché il mio saggio precede (2020) la traduzione italiana del primo dei due romanzi della dilogia (2022), i riferimenti nel testo sono all'edizione francese, che titola "Per una giusta causa"(PGC), così il romanzo fu pubblicato in URSS negli anni 50. "Stalingrado" è il titolo che il suo autore avrebbe voluto, ma per ragioni censorie, cambiò. È stato ripristinato dalla traduzione inglese del 2019 (Robert and Elisabeth Chandler), e ripreso dalla traduzione italiana del 2022 (Claudia Zonghetti).

    L’allievo non ha mai dimenticato il loro primo incontro a lezione. La voce del maestro è pacata, paziente, indulgente, ma può improvvisamente farsi appassionata nel tono, addirittura violenta, da propagandista politico più che da professore. Le formule che scrive alla lavagna non sono solo espressioni della nuova meccanica delle super energie e delle velocità supersoniche, sembrano addirittura appelli, slogan. Il crepitio del gesso sembra quello di una mitragliatrice, quando la mano del professore, delicatissima con gli strumenti ultrasensibili, ma forte come quella di chi sa usare pialla e ascia, indica un punto, come a piantare un chiodo sulla lavagna che porta il disegno di un integrale, incantevole nella sua forma di cigno. Leggi di più

  • In morte di Gorbačëv

    In morte di Gorbačëv

    In morte di Gorbačëv. Michail Sergevič Gorbačëv disprezzava la guerra. Disprezzava la realpolitik. Disprezzava l’idea di un ordine dettato dalle armi. Aveva liberato i detenuti politici. Aveva fermato la guerra in Afghanistan e la corsa al riarmo nucleare.
    Credeva nelle scelte dei popoli. I nostalgici dell’URSS lo accusavano di aver dato via la Germania, la Polonia,… E Lui sarcastico replicava: «Certo! Ho dato la Germania ai tedeschi, la Polonia ai polacchi,… a chi, se no?»
    In morte di Gorbačëv non posiamo non ricordare che amava una donna più del potere e poneva i diritti umani sopra lo Stato. Amava la pace e non credeva nell’uso delle armi. Ha fatto molti errori? Può darsi. Ma ci ha regalato trent’anni senza la minaccia di una guerra globale e nucleare. E ora? Ora nessuno ci regalerà più nulla.

    In morte di Gorbačëv

    Elena Kostioukovitch ha scritto un ricordo di Gorbačëv per La Stampa del 22 settembre 2022.

    Gorbačëv, agente del Bene.


    Per chi ha osservato Gorbačëv dall’inizio della sua ascesa fino ai vertici della piramide governativa era normale iniziare qualsiasi discorso su di lui con la parola «inaspettatamente»… Perché questo fu Gorbačëv per molti noi: un susseguirsi di sorprese.

    Il giorno dopo la morte del Segretario Generale Konstantin Chernenko, oscurantista e strangolatore di libertà, l’11 marzo 1985, i membri del Comitato Centrale del Pcus, tutti conservatori, rigidi, dispettosi, si riunirono al Cremlino per trovare un candidato inoffensivo e obbediente che continuasse la linea del partito, come avevano già fatto Breznev, Andropov e lo stesso Chernenko.

    La questione decisiva di quella riunione era: «Chi parlerà per primo?». Contraddire un nome voleva dire crearsi un nemico giurato in chi l’aveva presentato (con il rischio che fosse anche una persona vendicativa). Il primo a parlare fu l’arcigno «signor No», il ministro degli Esteri sovietico Andrei Gromyko, un retrogrado senza uguali. E «inaspettatamente» fece il nome di un semisconosciuto: Mikhail Sergeevich Gorbačëv. Leggi di più

    Proprio per queste sue qualità Michail Sergeevič merita di essere ricordato tra le Figure di Maestri.

    Grazie per averci fatto sognare, Michail Sergeevič!