Vincenzo Latronico e Massimo Zamboni. Dialogo. 20 agosto 2024 su La Stampa.
Berlino il vuoto
È da poco stato ripubblicato per Einaudi Nessuna voce dentro, il memoir in cui Massimo Zamboni racconta il suo periodo in una casa occupata della Berlino scissa dal muro: una ricerca esistenziale iniziata seguendo Tondelli, «per vedere dove terminava quella autostrada del Brennero che cominciava dietro casa nostra», e finita incontrando Giovanni Lindo Ferretti, con cui avrebbe fondato i CCCP. Il racconto di Zamboni – che torna in libreria nell’anno in cui il gruppo ha celebrato un ritorno sulle scene anche con due grandi concerti berlinesi – è scanzonato e lirico e rabbioso, ricco di immagini della Berlino degli anni Ottanta e di tutti quelli che la vita aveva trascinato lì, camerieri, occupanti, punk rocker, scappati di casa; come ogni storia di gioventù, combina nella sua voce l’incanto di chi ha vissuto quell’epoca e il disincanto di chi la ricorda. Ma per molti versi la città che racconta è sorprendentemente simile a quella che ho trovato io quindici anni dopo, raccontandola in un altro libro, La chiave di Berlino (Einaudi). Le atmosfere e le promesse che ritrova Zamboni – in un’epoca diversa, letteralmente in un Paese diverso da quello che ho visitato io, che ai tempi erano due – gli parlano nella stessa voce che ho sentito io, lo seducono con lo stesso richiamo. È il richiamo dello spazio vuoto, tanto promettente quanto inspiegabile in una metropoli – i lotti abbandonati, i palazzi disabitati in affitto a pochi soldi, l’aeroporto chiuso e rimasto lì come parco. Ho cominciato chiedendogli di questo.
Massimo Zamboni: «Berlino era un buco nero di cui non sapevo nulla. Appena arrivato, uscendo dalla stazione di Yorkstrasse, ho sbagliato strada e sono finito in una zona bombardata che assomigliava a una foresta vergine equatoriale in mezzo alla città. L’immaginario che aveva sorretto la mia emancipazione giovanile era legato agli Stati Uniti, ma mi è bastato un viaggio là per capire che quel mondo era finito. Bisognava guardare da qualche altra parte, lì dove non guardava nessuno. Berlino il contrario dell’eccesso, della sovrabbondanza degli Stati Uniti, dove ogni città ripercorre un nome che tu hai già sentito cantato o letto. Quelle americane sono tutte storie di altri. A Berlino per la prima volta, brancolando in quel buio, ho trovato la mia».
Vincenzo Latronico: «Per me è stato lo stesso – e questa è in fondo la storia classica, novecentesca, del ragazzo che va nella grande città e ne torna, mesi o anni dopo, avendo capito chi è. Era Parigi nell’Ottocento, New York negli anni Sessanta – Berlino ne è stato forse l’ultimo esempio, della metropoli come metafora della gioventù. Ora le città sono qualcosa di diverso».
Zamboni: «Certo, perché il grande vuoto che Berlino ti offre reclama di essere riempito. Questa disponibilità di spazio ti chiedeva di inventare qualcosa, un’arte o un mestiere, l’applicazione di un’idea, ho visto fiorire discoteche, negozi di ogni tipo, in qualunque buco. E io in fondo sono emiliano: poter intraprendere qualunque cosa, con pochissime regole, semplicemente basandosi sulle tue idee e sul tuo senso pratico, mi sembrava meraviglioso. È questo che deve fare una città: dare spazio al genio del dilettantismo. Berlino me lo ha insegnato – altre città non avrebbero potuto – e in qualche modo è ancora così».
Latronico: «Anche questo non è cambiato in trent’anni: quel fermento di – parola pessima, ma usiamola – creatività. Ma questo è un problema che anche io mi sono posto, perché questo linguaggio che usiamo – il vuoto che ti invita a creare qualcosa per riempirlo – è anche il linguaggio dell’imprenditorialità e quello che è successo a Berlino è anche che questi meccanismi di chi crea arte, di chi crea musica e di chi crea comunità sono poi stati adottati da chi crea in modo molto più violento e commerciale. Questo adesso è il linguaggio delle start up che si sono innestate su questo tipo di fermento berlinese quasi senza soluzione di continuità, cacciando gli artisti e i musicisti che cercavano un vuoto che non c’è più».
Zamboni: «Guarda, non sarei così drastico. Io vivo in mezzo alle montagne e qui, quando c’è un incolto, ci sono delle piante pioniere che cominciano a fertilizzarlo pian piano. E sopra alle piante pioniere – non c’è niente da fare – si innestano prima o poi le piante prepotenti, la quercia, il castagno, e le piante pioniere sono costrette a spostarsi. È un po’ quello che è accaduto a Berlino, ma accade ovunque: c’è sempre qualcuno che fertilizza questo vuoto, e poi arrivano le grandi potenze che se ne impadroniscono. E io non chiedo di meglio che farmi da parte, perché non ho possibilità di competere con questa potenza soverchiante, questa metropoli prepotente fatta di palazzoni di cristallo – quelli che stanno schiacciando, ad esempio, l’Astra Club, storico locale dell’Est dove abbiamo suonato a febbraio. Se mi sento al centro di qualcosa devo scappare altrove, non ho modo di competere con la forza di chi vuole stare lì».
Latronico: «Infatti, sono scappato anche io. Ma mi chiedo e ti chiedo – forse con un po’ di cattiveria – se non è stato un po’ ingrato, andarsene. C’è una famosa domanda che fece Zavoli a Mario Capanna. Gli disse, “Voi nel ’68 gridavate fantasia al potere. Poi la fantasia non è andata al potere, ma lei sì, in Parlamento. Mi dica, si sente in debito nei confronti della fantasia?”. Ecco, in questo sia per te che per me Berlino ci ha dato tanto – arriviamo smarriti, torniamo con un’arte. L’occasione sprecata dalla città, noi l’abbiamo sfruttata. Mi chiedo: c’è da sentirsi in debito?».
Zamboni: «Non credo. Perché Berlino tutto quello che mi ha dato me l’ha tolto anni dopo, con una violenza assoluta e quindi non sono in debito. Ma non sono neppure in credito, sono assolutamente allineato. Berlino ha sempre avuto questa ferocia nei miei confronti, mi ha regalato tantissimo ma quello che mi ha regalato me l’ha tolto facendomi male. E, con questi concerti, adesso mi ha ridato tantissimo. Ora siamo pari».
Latronico: «Questa ferocia si sta manifestando sempre di più. Per molti versi Berlino sta diventando, come scrivi, “una metropoli di vetro che si innalza senza ostacoli, densa di promesse che andranno disattese”. Lo spirito del luogo, il vuoto, rimane – ma è sempre meno. Questa mi sembra un’occasione persa. Con tutto quel vuoto la città aveva l’opportunità per inventare qualcosa di diverso, una città che non fosse né Berlino Est né Berlino Ovest, che non fosse né Pyongyang né Chicago. E alla fine non è successo».
Zamboni: «Sì, abbiamo abdicato la nostra possibile autorità morale, etica di europei cedendo le città ai grandi capitali. Da questo punto di vista Berlino rappresenta ancora una resistenza, che è la resistenza della memoria. La Germania ha la grande capacità di vergognarsi della propria storia, e di vergognarsene così tanto da metterla in mostra per creare dei distinguo. I memoriali dell’Olocausto, le pietre d’inciampo, i musei, ricordano. In questo, Berlino è ancora una lezione unica, per noi. L’Italia non ha saputo farlo, ha buttato tutto sotto la sabbia, e questo è uno dei motivi principali del nostro grande disastro. La Germania si è salvata perché ha affrontato il ricordo».