Il professor Štrum è personaggio centrale dei due romanzi di Vasilij Semënovič Grossman, Stalingrado e Vita e Destino. Lui e il suo maestro, Čepyžin, narrano un’altra porzione del popolo sovietico.
Non operai o minatori, non contadini, ma scienziati. La loro condizione è agiata, studiano, si interrogano sul rapporto tra teoria e prassi, sulla finalità del sapere. Ma la loro vita è trapassata dal profondo dolore della guerra.
Čepyžin sconta il dolore della disillusione dopo aver dedicato ogni sua energia allo stato sovietico. Štrum è travolto da una sofferenza continua, senza sollievo: sua madre è assassinata come tutti gli ebrei dei territori occupati ai bordi di una fossa.
Štrum, l’eroe non-eroe, e il suo maestro, l’affascinante professor Čepyžin
Questa lettura è pubblicata su ItalianaContemporanea podcast della dilogia di Stalingrado. La figura di Štrum e del suo doppio merita di essere annoverata nella pagina Figure di Maestri. Riporto qui l’analisi del personaggio del professor Štrum (su Čepyžin, clic qui) che ho pubblicato nel mio saggio Stalingrado, il polittico di Vasilij Grossman. Memorie plurali e memoria di stato. Poiché il mio saggio precede la traduzione italiana del primo dei due romanzi della dilogia, i riferimenti nel testo sono all’edizione francese, quando il romanzo si chiamava ancora “Per una giusta causa”(PGC), il titolo con cui il romanzo fu pubblicato in URSS negli anni 50. “Stalingrado” è il titolo che il suo autore avrebbe voluto, ma per ragioni censorie, cambiò.
Il professor Viktor Pavlovič Štrum, fisico e matematico, accademico delle Scienze dal 1936, è marito di Ljudmila Nikolaevna, la figlia maggiore di Aleksandra Vladimirovna. Il suo carattere di delinea già nei primi capitoli di Per una giusta causa, quando si racconta in retrospettiva il primo matrimonio di Ljudmila con il bolscevico Abarčuk, il divorzio, l’incontro con Viktor Pavlovič.
È un giovane universitario molto dotato, radioso, serio solo quando racconta qualcosa di buffo; ama la letteratura, frequenta i teatri, i concerti, adora il circo e i bar dove si ascoltano canti tzigani. Leggi di più
È un giovane viziato da sua madre, di cui è l’unico figlio, non ha mai dovuto lavorare per mantenersi agli studi. Si sposa con Ljudmila nel 1924 o ’25. La sua carriera nel mondo accademico è brillante. La guerra li caccia da Mosca dove hanno la loro casa nell’estate del 1941 e sono sfollati a Kazan’.
Il professor Štrum è un uomo bruno e fragile, un po’ curvo, magro, i capelli in disordine, aspetto generale più da compositore che da scienziato. È particolarmente maldestro nella vita quotidiana, tanto che sua figlia Nadja crede che il papà non sia bravo coi numeri. Un giorno in un negozio con la ma mma ha visto che non sapeva calcolare la quantità di tessuto da comprare per le tende di casa. (PGC, I, 27-28-29)
La personalità del professor Štrum è narrata in due densi capitoli della prima parte di Per una giusta causa (PGC, I, 32-33), dove si ripercorre la storia della sua formazione.
Štrum viene da una famiglia ebrea, originaria dell’Ucraina, ma ha avuto un’educazione russa. I suoi genitori sono ebrei affrancati dalla rivoluzione e integrati nella nuova società sovietica, che ha spazzato via l’antico regime degli zar. La famiglia di Viktor Pavlovič è complessa, ramificata, antica, non sempre brillante nella posizione sociale. Anna Semënovna, sua madre, vive a Kiev ed è vedova da quando suo figlio aveva cinque anni. Lavora in una clinica oculistica. Frequenta Olga, vedova di un capitano di marina che ha portato a casa dai suoi lunghi viaggi le cose più affascinanti: collezioni di farfalle, di conchiglie, un acquario meraviglioso. Anna è contenta che suo figlio osservi tutto ciò da Olga: è importante come la scuola! Anna contrasta la pigrizia del figlio e lo rimprovera quando marina le lezioni.
Ma ciò che caratterizza Viktor è la sua sete di esperienza pratica che contrasta con i suoi interessi per l’astrazione, le sue doti per la speculazione teorica. L’opposizione tra il suo desiderio d’azione e il dono della riflessione astratta è radicata in lui profondamente, e vissuta come una contraddizione.
La sua infanzia è stata l’epoca della contemplazione appassionata degli oggetti. Adolescente, si è emozionato per le letture di filosofia matematica:. Nelle equazioni, nel calcolo differenziale, che non cessava di stupirlo, riconosceva con emozione l’intelligenza nel suo massimo splendore.
Suo compagno di studi è stato Petja Lebdev. Hanno letto insieme complessi saggi di fisica, hanno sognato di fare incredibili scoperte sulla struttura della materia. Ma Petja, appena ammesso all’università, ha preferito partire per il fronte con un distaccamento di komsomol ed è stato ucciso. La sua sorte ha sconvolto Viktor che pensa spesso a lui, all’amico che ha preferito la rivoluzione allo studio. Viktor invece studia filosofia e matematica all’università di Mosca. È attratto dalle ricerche sull’energia nucleare e sull’elettronica.
«Il più grande mistero della natura è poesia. Piccole stelle violette illuminano lo schermo nero, particelle invisibili lasciano il segno del loro passaggio fulmineo in una concentrazione di vapore, come comete nebulose; l’ago svelto di un elettrometro trema sensibile alla scossa provocata da demoni invisibili, follemente veloci e potenti. Grandi potenze ribollono sotto la superficie della materia. I lampi sugli schermi neri di uno spettrografo sono segno di forze gigantesche che si risvegliano dal loro sonno per ripiombarvi ancora».
Viktor desidera appassionatamente risvegliare queste forze, costringerle a ruggire, a lasciare le tenebre del loro nascondiglio. Insoddisfatto dei suoi studi all’università, il giovane Štrum va a lavorare per un po’ in una fabbrica chimica. D’inverno lavora e studia; d’estate niente vacanze per stare in fabbrica. E il sentimento, che aveva provato da bambino a casa di Olga nell’osservare i pesci che apparivano quasi per miracolo nella spessa acqua verde dell’acquario, quel sentimento si manifesta ancora quando, pur tra pensieri errabondi ed erronei, ha la sensazione di essere vicino ad una scoperta.
Anche se la materia non è palpabile o visibile, non è meno reale. Gli atomi, i neutroni, i protoni vivono una vita non meno sorprendente di quella delle terre e dei mari. Viktor vorrebbe creare un ponte per mettere in comunicazione le sue teorie fisiche con il lavoro duro di milioni di operai. Pensa a Petja, al suo elmo al suo fucile, e questo ricordo lo scuote.
È dunque il tema del rapporto tra l’esperienza e la costruzione teorica che caratterizza la riflessione del professor Štrum, fin da giovane. In Per una giusta causa, la ricerca dell’utilità pratica della scienza si fa sentire nei dialoghi col collega Sokolov e nella visita alla fonderia sugli Urali. Lì si dovrebbe preparare la fusione di altissima qualità, necessaria alla costruzione di un’apparecchiatura indispensabile allo sviluppo delle ricerche nucleari.
Pëtr Lavrent’evič Sokolov lavora da tempo con Štrum, che lo stima per il suo valore scientifico. Quando il professor Štrum è convocato a Mosca da Kazan’, dove entrambi si trovano sfollati, Sokolov dubita che il loro progetto sia approvato o almeno integralmente approvato, perché le fonderie sono ormai tutte impegnate per la guerra. Štrum è preoccupato. Con Sokolov passa in rassegna i punti forti e quelli deboli del progetto di ricerca che hanno presentato e per il quale pensa di essere convocato. I due polemizzano vivacemente. Sokolov ritiene Štrum incapace di bussare alla porta giusta, e soprattutto si rinfacciano vicendevolmente di non avere senso pratico.
Štrum ripensa ad una conversazione con Sukov, il direttore del loro istituto, che ora è stato rimosso, e che si era espresso contro il progetto dei due scienziati. Un uomo pieno di senso pratico, mai interessato veramente al contenuto di una proposta o di un lavoro, sempre attento a ciò che poteva essere interessante per i suoi superiori, da cui dipendeva la sua carriera. Ma la scienza, pensa il professor Štrum, non sempre ha fini pratici, non perché li disprezzi o non li ricerchi, ma perché non si può sapere a priori cosa porterà beneficio alla società umana.
Nella conversazione col direttore aveva cercato anche di spiegargli la sua esperienza da bambino con l’acquario, ma l’altro lo aveva interrotto come se fosse una divagazione senza importanza. Ecco perché Štrum si era alterato notevolmente in quella discussione (per questo la ricorda); Sukov comunque non aveva cambiato idea. In ogni caso, i suoi superiori lo hanno rimosso dal suo incarico, Pimenov lo ha sostituito alla direzione, e ora è giunta la convocazione a Mosca (PGC, I, 30). In realtà tutto si svolgerà per il meglio e il progetto sarà finanziato.
Proprio durante il soggiorno moscovita il professor Štrum ha modo di rendersi conto che molti tecnici lo conoscono benissimo di fama. Il che lo meraviglia tantissimo: era convinto di essere noto solo ai fisici delle particelle, ma ha di nuovo la riprova che la sua ricerca teorica ha stretta connessione con l’applicazione tecnologica. Durante questi incontri di lavoro a Mosca conosce l’ingegner Krymov, fratello di Nikolaj Grigor’evič, marito di Ženja, la sorella di sua moglie.
L’ingegner Krymov è il direttore della fabbrica negli Urali, che dovrebbe produrre l’acciaio di altissima qualità, necessario per costruire l’apparecchiatura dei fisici (PGC, I, 58). Una volta tornato negli Urali, l’ingegner Krymov telefona al professor Štrum perché c’è bisogno di uno dei tecnici del suo laboratorio per mettere in funzione un’apparecchiatura elettronica. Il tecnico non è disponibile e il professore decide di partire lui stesso (PGC, I, 61). Lavorerà a Čeliabinsk per due settimane felici, perché avrà la possibilità di vedere l’applicazione pratica del suo sapere che si materializza in una grande, immensa fonderia, dove lo scienziato lavora a stretto contatto con gli operai.
Proprio nella fonderia sugli Urali, accanto al tema dell’impegno nel lavoro, emerge anche quello del dolore profondo della guerra. Il fonditore Korenkov, segretario della cellula di fabbrica del partito, e l’elettricista Gromov a Čeliabinsk conversano con Štrum,. Gli raccontano le durezze della loro vita, l’angoscia per la famiglia che è rimasta in zona di occupazione. L’Ucraina occupata dai tedeschi è anche il dolore di Štrum per la madre, tanto incessante che di notte gli strappa dal petto singhiozzi soffocati, uditi tuttavia dalla moglie dell’ingegner Krymov, nella cui casa è ospite. Ma il lavoro prosegue con impegno rinnovato e il fonditore Korenkov chiede al professore il suo numero di telefono, perché gli promette di fare comunque quella fusione di qualità che ha richiesto (PGC, II, 46).
Delineato così il carattere del personaggio, il racconto sviluppa la sua evoluzione determinata dalla catastrofe della guerra.
Già il ritorno temporaneo a Mosca, mette il professor Štrum davanti alla realtà della città evacuata. Il ritorno in treno, quasi un anno dopo la drammatica partenza dell’estate del 1941, suscita penosi ricordi. Il pensiero di Viktor Pavlovič non può distaccarsi da sua madre, dall’angoscia che emanano le sue lettere. L’ultima è del 30 giugno 1941. In luglio i nazisti hanno occupato a Kiev. Lui sa che cosa sta succedendo nei territori occupati, non perché ne abbia notizie certe, ma perché poco prima della guerra il collega Maximov ha raccontato in istituto quello che aveva visto durante un viaggio di studio in Cecoslovacchia e in Austria.
È un uomo mite Maximov, per questo la sua rabbia ha impressionato Štrum, che anzi lo ha invitato a rendere pubblico il suo racconto, benché qualche collega abbia fatto notare prudentemente che non era il caso, non era il momento, … e così via. La politica sovietica era di neutralità nel periodo tra la firma del trattato Molotov-Ribbentrop e l’attacco del 22 giugno 1941. Štrum ricorda bene la domenica 15 giugno, quando il prof. Maximov era venuto a trovarlo nella sua dacia. Era sua intenzione dar corso al suggerimento di rendere pubblica la sua testimonianza sui crimini fascisti, ma la conversazione aveva preso un’altra piega. Si erano ripromessi di rivedersi la domenica dopo, ma la domenica dopo scoppiava la guerra.
I giorni immediatamente successivi all’attacco sono colmi d’angoscia per Viktor Pavlovič. Il mercoledì 2 luglio va con Ljudmila alla dacia e durante la notte sogna la stanza e la poltrona e lo scialle di sua madre. Poi il 3 luglio Stalin finalmente parla alla radio. È una brutta estate a Mosca, bombardamenti aerei, incendi, crolli, morti e la pericolosa evacuazione di molti abitanti, tra cui l’intera Accademia delle Scienze.
Eppure ora, dopo un anno di dura sofferenza Štrum ritorna in città. Marciapiedi vasti e deserti, vetrine sbarrate, scuri alle finestre. Ma la città non è abbandonata: ci sono i soldati e molte sono donne, e c’è la popolazione civile. Anche l’edificio che ospita l’Istituto di Fisica è intero e ogni cosa è al suo posto, grazie ad Anna Stepanovna, che sotto le bombe ha custodito il laboratorio. Štrum l’abbraccia e, mentre bevono un tè col custode, non può non notare quanto Anna sia dimagrita e quanto attenti siano i gesti suoi e del custode nel raccogliere le briciole di pane (PGC, I, 39).
La voce narrante qui lascia uno dei suoi commenti più significativi, perché propone un tema, quello della resilienza popolare, che percorre tutto il romanzo, ed emerge con forza anche nel primo dialogo tra Štrum e Čepyžin, il decano dei fisici sovietici.
Osserva il narratore: Mosca nell’estate del 1942 è una città minacciata dai tedeschi che sono vicinissimi, più vicini di quanto siano mai stati altri nemici nel corso della storia della città. Al tempo dell’invasione tartara, un messo del Cremlino impegnava una notte a cavallo per portare gli ordini alle truppe che fronteggiavano il nemico. Sempre in una notte, nell’agosto 1812, un corriere portava gli ordini da Mosca a Kutuzov, ed era di ritorno prima della sera dopo. Ma nell’estate del 1942 un corriere a bordo della sua auto poteva raggiungere il fronte in un’ora e mezza, e in aereo in meno di un quarto d’ora.
Tuttavia i successi dei difensori della città nell’inverno 1941 e la decisione di Hitler di privilegiare l’attacco contro il Caucaso hanno alleggerito la pressione sulla città che riprende a vivere. I più, anche se a torto, si credono fuori pericolo.È proprio della natura umana, dice il narratore, non tollerare troppo a lungo una forte pressione. Il sentimento più diffuso tra i moscoviti è di resilienza, corroborata dai successi dell’autunno e dalla notizia che Leningrado continua a resistere dopo più di trecento giorni di assedio. La città ha un suo slancio vitale, esprime una sua forza irriducibile.
Mosca che nell’inverno ha continuato a vivere e lavorare come ha potuto, che si è barricata, che ha subito i raid aerei, che ha contemplato il suo cielo di piombo rischiarato dagli incendi, che la notte ha seppellito i morti, Mosca ora, nell’estate successiva, appare comunque bella e sontuosa, piena di gente sulla Tverskaja dove i tigli in fiore dopo la pioggia spandono un dolcissimo profumo (PGC, I, 40).
Al momento del ritorno dagli Urali a Kazan’, la vita di Viktor Pavlovič va avanti come di consueto, tra felicità del lavoro e acuto dolore per i fatti del mondo amaro che comunque, come dice Čepyžin, uno scienziato non può, e non deve, ignorare: «gli scienziati sono le persone più felici del mondo» (VD, I, 17), pensa Štrum, ma in tasca tiene sempre l’ultima lettera che per vie avventurose gli è giunta da sua madre.
Già il racconto delle traversie di questo involto, che braccato dalla guerra supera ogni ostacolo, segnala che il suo messaggio ha valore capitale. Il colonnello Novikov chiamato a Mosca al comando militare ha avuto la lettera a Stalingrado da Mostovskoj che a sua volta l’ha ricevuta da un vecchio conoscente, Gagarov, che l’ha avuta da un certo Ivannikov, che a sua volta ha avuto la busta da una donna sconosciuta. Gagarov conosce Mostovskoj e sa che questi è amico della madre della moglie del professor Štrum che è il destinatario della lettera. Per mezzo di Pëtr Novikov, il carrista, la lettera giunge a Mosca dove casualmente si trova Štrum che in realtà è sfollato a Kazan’.
E Viktor Pavlovič finalmente legge. Legge lui solo. Legge e rilegge la lettera, la conserva sempre su di sé, in una tasca interna della giacca (PGC, II, 46). Il lettore potrà conoscerne il testo soltanto in Vita e destino (VD, I,18). Anna Semënovna racconta cosa fanno i tedeschi agli ebrei nei territori occupati. È un resoconto preciso, dettagliato, vero in tutto, come confermeranno gli studi storici più documentati. È la notizia del genocidio degli ebrei, che percorre tutta la dilogia e ne costituisce uno dei grandi temi.
Questa lettera sconvolge Viktor Pavlovič. D’ora in avanti egli vivrà con questo dolore e per questo dolore maturerà insieme e la sua scoperta scientifica e la sua sofferta opposizione ad ogni forma di dittatura.
Attraverso un’esperienza che gli ha attraversato le fibre più intime, egli sa che quando una concezione assoluta del potere diventa premessa e fine di ogni azione, allora si producono violenza, deportazione, omicidio, strage.
È in questa disposizione d’animo che egli vive sfollato a Kazan’. La verità che deve affrontare è che il secolo di Planck e Einstein è anche il secolo di Hitler.
Prima di leggere la lettera di sua madre, ripensa spesso alla conversazione con Čepyžin a Mosca, poche settimane prima. E quanto gli sembra lontana ora quella chiacchierata! Nell’autunno 1942 la realtà è ormai troppo dolorosa per Viktor Pavlovič. Cerca di sottrarsi alla crudeltà della vita, dedicandosi alla sua scienza, ma anche in laboratorio gli esperimenti non vanno bene. Štrum sente in un vicolo cieco la sua ricerca scientifica, così come la sua vita personale. Riprende la lettera giunta da Kiev e un coltello gelato gli sembra trapassare la gola. (VD, I, 19).
E le tragedie della sua famiglia non sono finite: Ljudmila riceve una lettera dal fronte: Tolja è ferito. Si precipita a Saratov, ma arriva quando suo figlio è ormai morto. Il suo strazio è senza remissione, senza requie, senza sollievo, Ljudmila non è più la stessa, anche se sembra vivere come di consueto. Sono molto brevi i capitoli che raccontano il calvario di Ljudmila (VD, I, 26-34), con due eccezioni, il racconto del lungo viaggio in battello per raggiungere Saratov, quando la madre ancora spera di trovare vivo suo figlio; e il racconto della notte che la madre passa sulla fossa del figlio.
Ma la vita continua a Kazan’: per Ljudmila la vita di famiglia, essendo giunta da Stalingrado bombardata anche Aleksandra Vladimirovna, e per Viktor la vita del laboratorio alle prese con esperimenti che non danno i risultati attesi. Marito e moglie sono sopraffatti dal proprio dolore, ognuno si isola nella propria sofferenza, anzi coltivano rancore l’uno per l’altra: Viktor accusa Ljudmila di non essere mai andata d’accordo con sua madre, sottintendendo che se non fosse stato così, la mamma non sarebbe rimasta a Kiev, li avrebbe raggiunti a Mosca e sarebbe ancora viva; Ljudmila accusa suo marito, e anche la madre di lui, di non aver mai amato Tolja.
In queste laceranti sofferenze, un po’ di conforto viene a tutt’e due da Mar’ja Ivanovna, moglie di Sokolov, il collega di Štrum. Una donna piccolina, magra, pallida e smorta in viso. Viktor Pavlovič ha sempre preso in giro Ljudmila per la sua amicizia con una donna che confonde Flaubert con Balzac. Sfollati anche loro, i Sokolov affittano una stanza nella casa dell’ingegner Artelev, e nella loro stanzetta hanno preso l’abitudine di ricevere alcuni amici.
Tutti a Kazan’ perché sfollati, difficilmente a Mosca si sarebbero incontrati e frequentati: Artelev stesso, Štrum, Mad’jarov, vedovo della sorella di Sokolov, e Karimov, un tataro di Crimea. Ed ora a casa Sokolov Viktor Pavlovič si rende conto che la donna bruttina, amica di sua moglie, quando sorride, è affascinante; è silenziosa, è ospitale; in quella stanzetta angusta e sovraffollata non manca mai il tè e qualcosa da mangiare, magari la marmellata di ribes che è la sua preferita.
Forse a causa della reciproca diversità, di condizione di pensiero di carattere, questo gruppo discute liberamente, spesso anche di argomenti proibiti: la guerra civile, la collettivizzazione forzata delle terre, l’industrializzazione militarizzata, la deportazione di interi popoli, la letteratura … Molto critiche le posizioni sulle attuali condizioni del sistema sociale sovietico, sulla mancanza di libertà, sulla diseguaglianza, sull’ingiustizia, sulla violenza perpetrata contro intere categorie di persone, individuate come classe sociale, o come gruppo nazionale, o come gruppo etnico.
La discussione è animata circa la menzogna di Stato (oggi diremmo “la narrazione”), che negli anni Trenta riscrive la storia della guerra civile, mistificando i fatti accaduti. La menzogna di stato chiama “lotta di classe” sia la deportazione dei kulaki, cui attribuisce la grande fame dell’Ucraina; sia la deportazione di intere minoranze etniche, caricate sui treni e abbandonate in remote regioni dell’Asia centrale o della Siberia; sia infine l’epurazione di gran parte dei quadri bolscevichi, accusati di sabotaggio, di spionaggio. La menzogna di Stato chiama ”amicizia tra i popoli” la politica che favorisce la nazionalità russa, stabilendo a priori in quali percentuali possano essere presenti nella dirigenza civile e militare le diverse componenti nazionali o religiose, quanti russi, quanti ucraini, quanti tatari, quanti ebrei, quanti mussulmani, e così via.
Sono riflessioni e giudizi di ciascuno dei personaggi. Nelle conversazioni di Kazan’ è Sokolov a difendere il sistema sociale sovietico: è l’esercito, è il partito, è Stalin a garantire la difesa della patria, non è corretto criticare chi sta mettendo in atto ogni sforzo per tener testa ai nazisti. Sua moglie e Štrum, che lo conoscono bene, sono stupiti che tolleri simili discorsi in casa sua e che intervenga anche, sia pure a difesa del sistema. Sokolov è un uomo molto buono, uno scienziato di talento, ma è spaventato, perché conosce per esperienza diretta l’oppressione di Stato. È stato arrestato anche lui nel Trentasette e interrogato molto brutalmente; dopo ha passato mesi in una clinica neurologica.
Il duro trattamento riservato in fabbrica agli operai è invece oggetto delle osservazioni dell’ingegner Artelev, responsabile di un grande laboratorio chimico. Della decimazione e persecuzione dei tartari di Crimea parla Karimov, una conoscenza recente per Štrum, ma vecchia per Mad’jarov che invece, essendo uno storico, parla spesso della guerra civile e della falsificazione degli eventi ad opera del regime.
Karimov e Mad’jarov sono gli interlocutori più aspri nei loro giudizi sul sistema sovietico e si calunniano a vicenda: l’uno accusa l’altro di essere un delatore. Karimov dice a Štrum che Mad’jarov nel Trentasette è stato arrestato per qualche mese e poi rilasciato. «E non liberavano nessuno all’epoca. Nessuno che non tornasse utile» (VD, I, 67). Mad’jarov dice lo stesso di Karimov. «Tutti gli amici, e gli amici dei suoi amici, sono cenere da un decennio, sono spariti tutti senza lasciar traccia, è rimasto solo lui». (VD, II, 9).
Perché le discussioni, che si svolgono sotto il segno della massima libertà, hanno per protagonisti più estremi due personaggi in fondo così sgradevoli? Forse per prudenza verso il sistema censorio, lo scrittore ha voluto attribuire le opinioni più polemiche ai due personaggi più enigmatici del gruppo. Ai loro giudizi c’è sempre una risposta da sovietico ortodosso da parte di Sokolov. Del resto anche in Per una giusta causa nei passaggi più provocatori c’è sempre un personaggio che sostiene la politica del partito: per esempio nell’episodio del villaggio cosacco (PGC, I, 63-65), in cui Krymov è ospitato da due contadini sarcastici e sferzanti sul sistema dei kolchoz: subito le loro parole polemiche sono bilanciate dai sentimenti “politicamente corretti” dalla nuora.
Ma forse c’è una ragione più profonda: attribuire giudizi così netti, così circostanziati, così veritieri sul sistema sociale e sulla politica sovietica a due personaggi invece così criptici ed opachi ed infidi è il segno di uno dei motivi ricorrenti della dilogia: l’ambiguità che domina la mente e il comportamento di ogni essere umano. Ci sono persone lucide nel giudizio ed equivoche nel comportamento, persone coraggiose e pusillanimi ad un tempo, persone intelligenti e insieme maligne.
L’animo umano è, come dice Čepyžin, una “mistura” che contiene tutto e il contrario di tutto. Dipende dalle circostanze. Lo stesso si può dire anche di Štrum che manifesta una duplice e opposta reazione alle insinuazioni di Karimov e Mad’jarov: a Kazan’ pensa che comunque la loro è stata una conversazione di uomini liberi, che finalmente hanno avuto l’occasione di un libero scambio di opinioni, che hanno goduto la limpidezza allegra e coraggiosa della parola umana. Rientrato a Mosca, soprattutto quando si profila la sua rottura con i vertici dell’istituto e del partito, ripensa con grande timore alle conversazioni di Kazan’, che, ne è pienamente cosciente, lo possono rovinare.
Eppure proprio a Kazan’ proprio dopo una di queste serate con gli amici Štrum risolve i suoi problemi di lavoro. Improvviso un pensiero gli attraversa la mente, una possibile soluzione ai problemi su cui si arrovella da settimane. Egli pensa ad una soluzione in cui la teoria, fin lì elaborata e frutto dell’ingegno dei più grandi scienziati, diventa un caso particolare di un’altra teoria più ampia, in grado anche di fornire una spiegazione ai dati di laboratorio, che lo hanno messo in crisi perché non sono quelli che si aspettava. Lavora febbrilmente a casa alcune settimane. Non dubita dei suoi risultati, il che non è usuale per lui.
Ma ciò che lo sconcerta e vorrebbe capire meglio è per quali vie sia arrivato all’intuizione improvvisa. Ripercorre così le tappe della sua ricerca. Dopo i risultati inattesi degli esperimenti di laboratorio e dopo aver pensato a degli errori nella loro conduzione o ad un’imperfezione negli strumenti di misura, non volendo rinunciare alla teoria sottesa, ha pensato che la teoria su cui si basano gli esperimenti stessi, lungi dall’essere erronea, è semplicemente un caso particolare di una teoria più vasta.
Ma come gli è venuta quest’idea? Non c’è stata nessuna connessione tra pratica e teoria! Eppure la teoria, pensa Štrum, è figlia della pratica. Invece ha trovato quel che cercava quando ha rinunciato a collegarle. La nuova teoria è figlia del suo cervello, il nuovo è nato liberamente. Non che il ricco materiale del laboratorio non abbia rapporto con il suo pensiero, anzi. Il suo pensiero si è messo in moto proprio spinto esternamente dalle esperienze, ma queste non ne hanno determinato il contenuto.
Štrum è stupefatto: ha compreso che il nesso teoria-pratica non è di tipo meccanico. Egli pensa che l’intuizione del mondo reale sia ad un tempo proiezione di matematica ed esperienza, ma è anche frutto di un procedimento subconscio. Senza la matematica, senza le “sensate esperienze”, anche quelle fallite, non si dimostra una teoria fisica. Ma anche il dolore che lo sconvolge, pensa Štrum, anche l’angoscia che gli paralizza il cervello ha la sua parte in questa felice intuizione.
Mette al corrente gli scienziati che lavorano con lui della sua scoperta, illustra loro l’apparato matematico che la sostiene. Tutti gli fanno i loro complimenti, ma a fine giornata, Anna Naumovna gli fa sapere di essere stata esclusa dalla lista di coloro che rientrano a Mosca per primi: nessun ebreo è nelle liste dell’Accademia delle Scienze … «È impazzita, mia cara? La nostra non è più la Russia zarista, grazie a Dio! Cos’è questo complesso di inferiorità da ghetto. Si tolga subito dalla testa certe sciocchezze!» commenta Štrum (VD, II, 7). Ma la nuvola densa del potere già oscura il sole della scoperta scientifica.
La vita di Štrum durante l’anno di guerra è piena di soddisfazione per il suo lavoro di scienziato, ma è sempre visitata dalla sofferenza, dall’indignazione, dalla paura, stati d’animo di cui non può liberarsi, che gli sono connaturati.
La sua gioia per la macchina finalmente giunta dagli Urali e che al rientro a Mosca viene montata in laboratorio, è avvelenata dall’insofferenza che egli nutre sempre più verso l’atteggiamento comune dei colleghi, così sensibile e acquiescente alle direttive di partito.
I programmi di lavoro dell’istituto non sono apprezzati, perché le questioni teoriche, sentenzia il Comitato Centrale, vi godono di un’attenzione eccessiva. Sicché Pimenov, il giovane e liberale direttore amministrativo dell’istituto che ha finanziato la macchina voluta da Štrum, è rimosso. Si dimette anche Čepyžin, che ha rifiutato di modificare i piani di ricerca e, si mormora, di sviluppare gli studi sull’energia nucleare. Il clima è pesante: si dice che Čepyžin abbia avuto un attacco di cuore. Štrum telefona al suo maestro e apprende che se n’è andato dalla città con la moglie per un po’, come temesse per sé. In quei giorni è arrestato anche un famoso botanico, Četverikov.
L’ombra del Trentasette si allunga ancora sulla vita del laboratorio. Accanto a queste fondate preoccupazioni, Štrum è indignato per la nomina a direttore di Šišakov, noto nell’ambiente scientifico per la sua scarsa competenza. Perché, si domanda Štrum, l’incarico non è stato affidato a lui? I suoi meriti scientifici sono indubbi, ma, pensa, forse il problema è la sua origine ebraica (VD, II, 26-28).
In istituto compare anche un giovane che ha un incarico nella sezione scientifica del Comitato Centrale ed è parente di un altissimo personaggio. Štrum ha subito uno scontro verbale con lui a proposito di Einstein. Il giovanotto taccia la teoria della relatività di idealismo, spacciato per grande scoperta scientifica. Štrum si indigna e gli fa lezione, suscitando la preoccupazione sarcastica di Sokolov.
E tuttavia la fama del professor Štrum cresce in tutti gli ambienti accademici moscoviti. Finché, in un rovesciamento totale, è messo sotto accusa. La sua teoria, dicono è idealistica, contraddice le idee leniniste sulla natura della materia, è priva di sviluppi applicativi e «trasuda spirito ebraico» (VD, II, 53).
Il Consiglio accademico in un primo tempo propone il lavoro di Štrum addirittura per il premio Stalin.
In un primo tempo sono ostili solo un professore e il direttore. Questi, però, sta brigando perché il premio Stalin vada a un giovane fisico, per un’analisi radiografica dell’acciaio, di grande rilevanza pratica per una produzione di qualità.
Altri segnali negativi giungono a Štrum dai fatti. In casa Šišakov si è tenuta una riunione a cui non è stato invitato, per la buona ragione che si complotta contro di lui. Anna Stepanovna Lošakova, che ha conservato l’Istituto durante l’anno di evacuazione e che è rimasta sotto le bombe di Mosca, è stata licenziata. Il giovane fisico che Štrum ha caldamente raccomandato per l’assunzione, e che ha un cognome ebraico, non è stato chiamato. Infine Anna Naumovna, ebrea anche lei, non torna a Mosca da Kazan’.
Štrum si inviperisce e, deposta ogni prudenza, litiga col capo del personale, col vicedirettore e col direttore in persona. Tutti lo trattano cortesemente e gelidamente, negano ogni discriminazione nazionale e razziale. Ma Viktor Pavlovič sa per esperienza che non è così. Ogni sovietico è tenuto a compilare periodicamente un questionario su di sé, sulle sue origini familiari sia sociali che etniche, sul suo mestiere, sulla posizione sua e della famiglia intera verso la polizia.
Le informazioni che tutti sono obbligati a fornire sono elaborate secondo un criterio statistico. La probabilità che ci siano nemici è più alta in certi gruppi sociali piuttosto che in certi altri,. Dunque si interviene preventivamente con la discriminazione, l’arresto, la deportazione. Lo stato sovietico, pensa Štrum, usa la stessa pratica dei nazisti, che distrugge popoli e nazioni. Štrum è sconfortato e rabbioso. Ha anche molta paura. Sa di essere inerme davanti all’onnipotenza dello Stato. Ma sente anche di non poter fare altrimenti che opporsi.
Štrum è il solo personaggio pienamente cosciente che i caratteri del mondo sovietico. Mancanza di libertà personale, disuguaglianza davanti alla legge, burocrazia opprimente, sono causati dal vizio di fondo: la mancata affermazione in Russia della democrazia. Se n’è parlato a lungo a Kazan’. Mad’jarov aveva espresso un acuto giudizio su Čechov, condiviso da tutti. Nell’opera di questo grande scrittore per la prima volta nella storia letteraria russa si manifesta la Russia intera, nella varietà e molteplicità dei personaggi di ogni nazionalità, ceto sociale, di ogni età, uomini, donne, bambini, …
«Čechov è l’alfiere della bandiera più grande che abbia mai garrito sulla Russia nei mille anni della sua storia: l’alfiere della democrazia buona, della vera democrazia russa» (VD, I, 66).
Anche l’umanitarismo russo, aveva detto Mad’jarov, è partigiano, sacrifica l’uomo all’umanità astratta. Non così Čechov che mette in primo piano ogni essere umano, da rispettare, compatire, amare in tutte le sue forme. Ma la democrazia non è mai vissuta, pensa Štrum, e il potere sovietico si è fatto presto dispotico, e per questo anche assassino. Elimina chiunque gli si opponga, sulla base di un calcolo probabilistico, vuoi a sfondo razziale, vuoi a sfondo nazionale, vuoi a sfondo sociale, vuoi a tutte e tre le cose insieme.
È una pratica omicida comune al potere sovietico e a quello nazista: entrambi eliminano interi strati di popolazione, su base razzista i nazisti, o per nazionalità o origine sociale gli stalinisti. Entrambi i regimi respingono il concetto di individuo, di persona e agiscono per grandi insiemi.
Ancor più del celebre dialogo Mostovskoj-Liss, il tema della specularità tra sistema sovietico e sistema nazista è al centro della vicenda di Štrum, che si dipana tuttavia, è bene ricordarlo, dentro un romanzo, non in un’analisi sociologica o economica, non in un saggio storico. È piuttosto il racconto di un processo di maturazione personale attraverso il dolore della propria vita. In Štrum nasce un sentimento lucido: quando il potere è assoluto, ecco che le sue azioni sono oppressive e possono essere omicide, potenzialmente addirittura genocide.
Il potere nazista è totalitario e di conseguenza assassino, e sua madre di questo fa esperienza diretta. È attraverso la morte orribile della madre, assassinata ai bordi di una fossa, come tutti o quasi gli ebrei di Kiev, che Štrum acquisisce piena consapevolezza della condizione di impotenza davanti al potere dello Stato e nello stesso tempo dell’assoluta necessità di opposizione.
E mentre Ljudmila non comprende le ragioni del comportamento di suo marito e in fondo lo biasima, e lo taccia di egoismo perché non si cura delle conseguenze delle sue azioni su tutta la famiglia, Mar’ja Ivanovna sa che il comportamento di Viktor Pavlovič è motivato dal pensiero di sua madre. Lei, a differenza di Ljudmila e di chiunque altro, sa che Viktor Pavlovič non ha scelta, non può non opporsi. Anche se ama moltissimo il suo lavoro e lasciarlo, Mar’ja lo sa, è un’acuta sofferenza, non può fare altrimenti, perché lui è lui.
È un’esigenza morale profonda nata dal dolore, quella che lo spinge. Ed è la comprensione di Mar’ja a spingere Viktor verso di lei. Durante una silenziosa passeggiata con lei in un parco cittadino, si distende, si sente infine leggero e sereno, grazie alla presenza di quella donna, bruttina e incantevole, agile e goffa insieme. Arrivano sul lungofiume e ammirano la Moscova ancora gelata (VD, II, 57).
Il tema della necessità della resistenza riemerge anche nell’ultimo dialogo con Čepyžin (VD, III, 25). Al corrente della disgrazia di Štrum, cerca di consolarlo, facendogli gettare uno sguardo sul futuro che la scienza sta aprendo. Ma ne provoca il profondo turbamento fino alle lacrime. Štrum ormai sa perché il suo maestro si è dimesso, perché non vuol avere parte in un presente di barbarie e sangue, e lui stesso ormai non può dimenticarsene e non può trovare consolazione.
Il professor Čepyžin è tuttavia assai meravigliato dell’attacco cui Štrum è sottoposto. Aveva interpretato la nomina a direttore di Šišakov come un chiaro segnale della volontà del partito di favorire la ricerca nucleare: Šišakov per la gestione amministrativa e politica, Štrum per il lavoro scientifico vero e proprio.
Il professor Čepyžin non si sbaglia, come si vede dalla telefonata di Stalin in persona a Štrum, un intervento che corregge gli “errori” dei funzionari più stalinisti di Stalin (VD, III, 42).
Štrum è riaccolto così in istituto con tutti gli onori e inizia per lui una vita piena di impegni: auto, passaggi aerei, soddisfazione di tutte le sue richieste. Il giovane fisico Landesman è stato assunto, Weisspapier è rientrata da Kazan’ e Anna Lošakova è stata richiamata. Ma la telefonata di Stalin, cioè dello Stato fatto persona, esige che la scienza di Štrum serva i suoi fini e dunque lavori alle armi nucleari.
Tutto fila veloce e senza intoppi. Štrum ripensa all’ingegner Artelev di Kazan’ (VD, I, 63), il chimico, quando raccontava degli intralci burocratici al lavoro. Ma il meglio della burocrazia, pensa Štrum, viene quando la burocrazia rimuove ogni ostacolo; è «in una presunta assenza di burocrazia che la burocrazia si esprime al meglio» (VD, III, 53). La burocrazia può fermare qualunque progetto e può accelerarlo al massimo. Ricorda sempre i discorsi di Kazan’, ma ora gli paiono lontani e poco interessanti… è lui che sta cambiando … è lui che sta integrandosi.
Anche nella sua vita privata spunta la meschinità, e la menzogna. Durante i giorni della disgrazia, è giunta a Mosca Ženja, per soccorrere suo marito, Krymov, imprigionato alla Lubjanka. Scaduto il permesso accordatole dal suo ufficio, Ženja deve rientrare a Kujbyšev e Štrum, che nel frattempo ha iniziato la sua nuova vita da persona importante, ne è sollevato, perché non vorrebbe che la sua casa, la casa di un famoso accademico, diventi un centro di aiuto per detenuti.
Si vergogna subito di questo pensiero gretto ed ingeneroso e prega Ljudmila di telefonare a sua sorella, perché torni quando vuole o, meglio, quando glielo permetteranno: la vita sovietica è regolata anche dal sistema dei passaporti interni. Ma il cruccio più grande per Viktor Pavlovič sono i sotterfugi per incontrare Mar’ja Ivanovna, le bugie che dice a Ljudmila. L’amore della sua vita implica la menzogna, così come il suo lavoro di scienziato implica il patteggiamento con la sua coscienza e dunque ancora la menzogna, perché la sua ricerca teorica ha imboccato la strada inquietante della produzione delle armi nucleari.
E tuttavia Štrum è fiero di se stesso, orgoglioso per la saldezza morale dimostrata. Giudica con severità perfino Čepyžin! Finché … finché lo Stato non esige nuovamente da lui un ulteriore atto di sottomissione.
Direttore, vicedirettore e incaricato del Comitato Centrale, Šišakov Kovčenko Bad’in, lo circondano, e con cortesia d’acciaio chiedono la sua firma su una lettera. La stampa occidentale, dicono, sta montando una campagna diffamatoria contro l’Unione Sovietica per la persecuzione di tanti intellettuali. Il biologo Četverikov effettivamente è stato da poco arrestato, obietta Štrum. E sono stati arrestati di recente anche i medici ebrei, il prof. Pletnëv il dott. Levin, accusati di aver avvelenato Gor’kij. Certo, ribattono i tre, ma sono rei confessi e dunque l’Occidente è calunnioso e occorre difendere il buon nome della patria. E Viktor Pavlovič firma. Lo fa perché non regge la pressione irresistibile cui è sottoposto, perché conosce il tormento dell’essere emarginato: ne ha fatto già esperienza.
E non si perdona. Si accusa di aver levato la mano su persone che non possono difendersi. Ad aggravare la sua vergogna gli giungono le voci di stima e riconoscenza degli amici. Anna Lošakova gli manifesta tutta la sua gratitudine per essere stata riassunta grazie alla sua fermezza. Mar’ja Ivanovna gli dice che, grazie al suo coraggioso esempio, suo marito ha finalmente trovato il coraggio di non firmare proprio quella lettera. Čepyžin al telefono gli fa capire che anche lui sa della lettera ma non l’ha firmata. Štrum si sente male. È distrutto. Ha male al cuore. Capisce di essersi insuperbito per il suo gesto di coraggio, ma sa bene che ogni uomo è coraggioso e vile ad un tempo. E la pressione cui si è sottoposti in un sistema dispotico è tale che non si può giudicare a cuor leggero chi non è sempre coraggioso.
Lo stato totalitario è tanto potente quanto inermi sono le sue vittime. Forse questo pensiero lo salverà dalla disperazione. Forse avrà un’altra occasione e, guarito dal suo orgoglio, spera di potersi mostrare degno, degno di sua madre, degno di riscattarne la morte orribile. L’’assassinio perpetrato da un regime totalitario.
Ci riuscirà? La questione resta aperta.